il mondo parla digitale, la scuola no

Due articoli a confronto, non edificanti e incoraggianti: il primo è del Corriere Roma, che descrive la desolante stagnazione riguardo alla (solo) auspicata rivoluzione digitale nella scuola.

L’altro articolo (lo trovi qui) è in inglese e definisce alcuni punti di criticità che rendono questa rivoluzione (ma parlerei piuttosto di evoluzione) ancora difficile da realizzare.
Al centro ci sono soprattutto dirigenti scolastici, docenti e genitori incapaci di comprendere la vera portata e le potenzialità dell’introduzione di materiale didattico digitale in classe.
Ma non mancano politiche zoppe, velleitarie o incomplete, sostanzialmente ipocrite, che fanno solo finta di avvertire la necessità di cambiamento ma in fondo lo temono.

L’unica cosa sicura è che la realtà in cui stiamo vivendo e in cui vivranno i nostri figli sta cambiando e cambierà sempre più radicalmente e rapidamente e non è più possibile indagarla e interpretarla secondo vecchi sistemi, con vecchi strumenti e paradigmi inadeguati.
La domanda è: fino a quanto ancora potremo permetterci questo gap, questa incapacità del mondo dell’educazione di comprendere il mondo e di parlare la sua lingua?

Dalla Francia una riflessione su digitale e cartaceo

Un articolo di Fabio Gambaro su Repubblica segnala un numero monografico della rivista francese Le débat interamente dedicato all’ebook.
Il pezzo di Gambaro sintetizza necessariamente in pochi paragrafi il contenuto generale di questo numero monografico e soprattutto seleziona gli interventi che gli sono sembrati più significativi, invitando chi è interessato a consultare direttamente la rivista stessa.
Da parte mia, vorrei enucleare dalla sintesi di Gambaro alcune argomentazioni che meritano un approfondimento o una riflessione ulteriore.
Dei contributi presenti  nel numero di Le débat, Gambaro ne menziona quattro, che rappresentano altrettanti punti di vista sul mondo dell’editoria digitale: quello di un editore (Gallmard), di uno storico della letteratura (Compagnon), di un economista (Benhamou) e di uno scrittore (Assouline).

La posizione di Gallimard era già nota da alcune interviste da lui concesse sull’argomento ed è anche prevedibile sentirlo dire che il ruolo dell’editore rimarrà centrale a patto però che il mercato sia regolamentato per garantire una vera concorrenza (condizione non così scontata come sembra).
Gallimard parla anche dii salvaguardia dei librai, necessari per vendere opere “che non si prestano a una diffusione digitale” come i libri d’arte e quelli per l’infanzia.

Con tutto il rispetto che ho ovviamente per Gallimard, per i libri d’arte (che adoro) e per quelli d’infanzia (mia figlia finora non ha ancora mai usato un’app e legge libri solo cartacei), penso che Gallimard sottovaluti la capacità di rottura del nuovo supporto e soprattutto la molto probabile larghissima diffusione che avranno presto i tablet, dove i continui perfezionamenti alle funzioni di zoom e appunti digitali renderanno la consultazione e l’analisi delle opere d’arte forse preferibile – sicuramente più pratica – che sul cartaceo. Non proprio come un’alternativa, ma piuttosto come unoulteriore strumento a disposizione.
Lo stesso dicasi per l’infanzia (e non lo dico con gioia): quando i bambini – come sta già accadendo – inizieranno sin da piccoli a usare un tablet, non troveranno più molto allettante il pur colorato e vivace libro di carta, dove l’interazione e la multimedialità sono limitate.

Lo storico della letteratura Antoine Compagnon, invece, se da un lato riconosce che il digitale consente agli studiosi di reperire testi rari e fuori catalogo altrimenti quasi irraggiungibili, dall’altro mette in guardia sul rischio di una lettura sempre più frammentata e distratta arrivando ad affermare che le opere di una certa lunghezza non sono adatte al nuovo supporto, fino a predire una modalità di lettura pre-gutenberghiana, “intermittente, digressiva e collettiva”. Tesi in un certo senso anche affascinante, anche se penso sia questione anche di device utilizzato: l’ereader puro è – ancora – molto concentrato sul testo e sull’interazione tra esso e il lettore piuttosto che quella tra lettori, che è più una prerogativa dei tablet, i quali contengono anche elementi in effetti di distrazione (posta elettronica, web, social media e via dicendo). Per menzionare la mia esperienza, devo dire che è stato proprio grazie all’ereader che ho letto due grandi classici della letteratura russa come I Karamazov e Anna Karenina, tomi che non mi sarei mai portato in metropolitana o in aereo.

L’economista Françoise Benhamou (sempre nella sintesi di Gambaro) fa un’osservazione interessante secondo la quale  l’avvento dell’ebook è visto come un fattore che coniuga una rivoluzione industriale e una cognitiva: la prima metterà in imbarazzo gli editori che sono anche distributori e pone su un nuovo rapporto domanda e offerta, scarsità e abbondanza, privilegiando su tutto un nuovo valore, quello dell’attenzione, per il quale ormai già molti sono pronti a correre il rischio della pirateria, vista come nuovo catalizzatore di attenzione (ne ho parlato  qui qualche tempo fa).

Infine, lo scrittore e critico Pierre Assouline mette giustamente in rilievo che il digitale risolve due problemi del lettore contemporaneo come “l’ingombro e il nomadismo” (vedi il cap.1 del libro “La lettura digitale e il web“) e soprattutto dice una cosa importante: l’ebook è ancora nella fase di mimesi del modello precedente, il libro cartaceo (vedi a riguardo anche il libro di Roncaglia “La quarta rivoluzione“): ma una volta che  si sarà liberato di questa ingombrante eredità, “il flusso diventerà l’avvenire del libro”. Ma cosa significa “flusso? A me personalmente ha fatto tornare in mente quello che era emerso a Editech 2012 (ne scrissi qualcosa qui ma consiglio soprattutto il commento di Ivan Racheli di Apogeonline al post).

Il dibattito ovviamente non si esaurisce qui e spero che anche voi abbiate osservazioni, opinioni o dubbi sui riflettere insieme.

La scuola digitale? Intenti lodevoli, esiti (per ora) avvilenti

Data qualche giorno fa questo intervento di Silvano Tagliagambe, direttore scientifico del progetto “Scuola digitale”: un’amara riflessione sul divario tra nobili intenti e reali interessi in gioco quando si parla di didattica e nuove tecnologie. Lo diffondo, come molti, sperando magari di approfondire insieme a voi le questioni più importanti che emergono.

Personalmente non mi stupisco che ciò accada, piuttosto mi chiedo quando il sistema editoriale e scolastico sarà pronto ad affrontare seriamente le opportunità e i rischi che il digitale necessariamente pone a educatori, editori e istituzioni.

Per rinfrescare la memoria su cosa ne penso io, invito a rileggere un post di qualche tempo fa intitolato non a caso L’educazione va sulle nuvole, l’editoria scolastica rimane a terra?

Buona lettura e buone vacanze.

L’editoria didattica in 4 punti

Leggendo questo articolo del Guardian piuttosto interessante sulle peculiarità dell’attuale panorama editoriale tra digitale e self publishing, ho meditato sule differenze esistenti tra editori specializzati in (o che comunque si occupano di) didattica e chi invece pubblica soprattutto narrativa. Differenze che concorrono a definire un modello di business e dinamiche editoriali molto diverse.
Ecco quelle che mi sembrano le più significative:

1- L’editore didattico non si basa (o si basa ancora poco) sulle librerie online
Questo comporta un’attenzione minore verso il canale online, mentre rimane privilegiata la libreria fisica (o il mercatino dell’usato, ma questo è un altro tema); tuttavia interessante il progetto Scuolabook, in pratica la prima libreria digitale italiana di editoria scolastica in cui convergono più editori specializzati.
Inevitabilmente, con la direttiva Gelmini sui contenuti misti, gli editori didattici si stanno comunque organizzando autonomamente, trasformando i loro siti in portali di apprendimento, con approfondimenti online e materiale scaricabile, se non addirittura embrioni di piattaforme didattiche (vedi soprattutto Mondadori, ma anche Zanichelli e Giunti si muovono in fretta) dove i contenuti del libro sono presentati e utilizzati in modo più flessibile rispetto al cartaceo.

2- Ha un contatto molto  più diretto con il suo pubblico, che poi semplice pubblico non è, trattandosi di docenti e/o studenti.
La relazione tra l’editore didattico e la comunità di chi adotta o utilizza i suoi libri è molto diversa da quella che intercorre tra chi pubblica narrativa e i lettori; questo perché i docenti non sono semplici lettori. I libri, nel caso della scuola, diventano veri e propri strumenti di lavoro e, come tutti gli strumenti, se non funzionano vengono messi da parte, spesso senza troppi scrupoli, dato che l’offerta – e quindi la scelta – è sempre più ampia. Gli insegnanti, sia detto per inciso, dialogano spesso con gli editori, scrivono mail per complimentarsi con entusiasmo o criticare anche molto severamente.

3- I contenuti sono circoscritti alle materie di apprendimento
Importante il fatto che l’editore di didattica vede il proprio raggio d’azione limitato alle materie scolastiche e deve concentrare tutta la sua abilità nel trovare la formula giusta per presentare contenuti non nuovi nella maniera più originale, didatticamente efficace e innovativa possibile (ma non troppo, per non scandalizzare l’establishment scolastico da sempre tradizionalista).
A sua volta, paradossalmente, ha a disposizione, molto più dell’editore di narrativa, strumenti e opportunità per sperimentare: non è un caso che, dai tempi delle audiocassette e dei videocorsi per arrivare ai cd-rom e ora al web, è sempre nella didattica che si intraprendono prima nuove strade per l’erogazione dei contenuti su diversi supporti e attraverso nuove modalità (in senso quindi non solo multimediale, ma anche multimodale).

4- Nella didattica, il marchio editoriale ê più brand dell’autore (salvo rari casi)
Quest’ultimo punto è più importante di quanto si pensi, a mio parere; nella narrativa, è noto, il brand è l’autore, non l’editore: se un domani Umberto Eco decidesse di autopubblicarsi o di passare alla casa editrice indipendente di un suo amico, venderebbe ugualmente, se non di più.
Questo perché il lettore segue l’autore, non certo la casa editrice che lo pubblica. Nella didattica questo non accade, se non in maniera molto minore e in rari casi (il luminare che pubblica un libro di testo può essere uno di questi): l’insegnante si fida il più delle volte della casa editrice, di cui conosce i materiali didattici senza necessariamente ricordare  i nomi di chi li ha scritti (se non per chiamare i testi in modo convenzionale col nome degli autori).
Questo porta a una considerazione finale sul self publishing nella didattica: esiste? Ha un futuro? In questo senso ancora il panorama è molto da definire, tante sono le soluzioni per ora individuate: dai Free Educational Content, cioè i materiali didattici autoprodotti e condivisi all’interessante portale di OilProject; dall’esperienza (anche discussa, in quanto in effetti discutibile) di Book in Progress a quella, molto diversa e sicuramente più innovativa di Dianora Bardi (qui la mia intervista con lei e qui il suo centro studi).

Anche l’editoria scolastica e didattica in generale sta evidentemente cercando il modello di business, ammesso che ce ne sia solo uno; l’impressione è che la complessità dello scenario, la peculiarità dei contenuti e del contesto a cui sono rivolti renda tutto molto difficile da interpretare, ma credo anche più interessante e stimolante da sperimentare, e chissà che proprio dalla didattica non possano venire idee e formule nuove e vincenti anche al di fuori dell’ambito della scolastica.