il libro di testo digitale: un cavaliere senza cavallo

Da un po’ si parla, in ambito didattico, del digitale come di un hype che sta rivelandosi tanto prematuro quanto passeggero, dato che le criticità sono ancora molte. Soprattutto strutturali. Non parlo (solo) dell’Italia e la sua scuola di antica vocazione tecnofobica (con la complicità di Ministero e editori, e sono d’accordo con il secco ma chiaro commento di Massimo Mantellini sull’argomento, che leggete qui), ma anche oltreoceano le cose non sembrano rosee, o almeno non tanto quanto si supponeva: in un articolo dal titolo Perché i libri di testo online ancora non funzionano si parla di studenti che non possiedono un hardware adatto a supportare tutte le funzionalità di questo tipo di materiale didattico, che richiede non solo banda larga, ma anche requisiti di sistema piuttosto avanzati che non tutti possono ancora permettersi, evidentemente. Tanto che un distretto scolastico americano, Fairfax County Public Schools, dopo aver lanciato il classico programma 1:1 + BYOD (Bring Your Own Digital Device) ha dovuto spendere ben 2 milioni di dollari per ritornare nientemeno che al cartaceo.

Cose dell’altro mondo? Non so, non credo. Fatto sta che viviamo un momento in cui da una Immagineparte si parla di (e si fanno) piattaforme super-evolute e si discute di app didattiche, si discetta di HTML5 e epub3 e si prospettano i futuri scenari dell’educazione 2.0; dall’altra, come si legge, si torna al cartaceo con la coda tra le gambe o ci si interroga se per caso “il pendolo non sia oscillato troppo rapidamente” e si parla già espressamente di una “tech bubble“, una bolla tecnologica nella didattica, basandosi soprattutto sul timore che il taglio di fondi all’istruzione che a quanto pare riguarda ogni Paese ad ogni latittudine non provochi un cortocircuito tecnologico con ricadute nefaste.

L’eterno dubbio per gli editori rimane comunque lo stesso, e anzi si rafforza: meglio stare a guardare o gettarsi nella mischia, anche rischiando di farsi davvero male?

perché e come il cartaceo sopravviverà nell’era digitale

Nel mio post precedente mi (e vi) domandavo se la proliferazione dei tablet non eclissasse in qualche modo la funzione e la diffusione dei dispositivi a inchiostro elettronico. Non ero evidentemente l’unico a porsi il quesito né l’unico a temere l’estinzione degli e-reader (vedi qui), nonostante gli indubbi vantaggi che offrono per chi vuole solo leggere un testo. I commentatori del mio post hanno esposto ottimamente questi vantaggi, quindi invito a leggere i loro interventi.

Una seconda questione emersa nel dibattito (proseguito in parte anche su Twitter) è quella relativa al rischio che il tablet metta a repentaglio la lettura tout court, cioè il tempo e la concentrazione che dedichiamo alla lettura di un testo esteso. Questione nemmeno tanto nuova, ma ora accentuatasi con l’avvento, appunto dei tablet in diversi formati e dimensioni.
La ricaduta di questo interrogativo non poteva che essere il riproporsi della questione digitale vs. cartaceo, la sempiterna querelle a cui personalmente ho sempre rifiutato di sottostare, fautore da sempre della convivenza tra i due supporti.

A supporto della mia posizione è venuto recentemente un articolo di Nicholas Carr comparso sul Wall Street Journal, dove Carr parla un po’ di tutti gli argomenti menzionati poco sopra e mette in evidenza alcuni dati secondo i quali la crescita di lettori su digitale continua ad aumentare ma non in maniera esponenziale come era agli inizi: “ancora un buon 89% di lettori” continua Carr “dicono di aver letto almeno un libro cartaceo negli ultimi 12 mesi. Solo il 30% afferma di aver letto anche un solo ebook lo scorso anno”.
Secondo i dati che presenta Carr, solo il 16% degli americani ha comprato effettivamente un ebook, mentre il 59% afferma che non gli interessa.
Carr menziona anche il progressivo affermarsi dei tablet come un fenomeno che potrebbe ulteriormente attenuare la portata degli ebook; allo stesso tempo, il fatto che un libro digitale non possa essere rivenduto e prestato dopo la lettura riduce la percezione del valore – e dell’essenza stessa? – del prodotto.

Tuttavia, riconosce Carr, ci sono alcuni casi in cui l’ebook si dimostra come il formato migliore per determinati libri: quelli per esempio di “intrattenimento leggero” venduti (e acquistati) di solito nei supermercati, negli aereoporti o in generale nella grande distribuzione. Quei libri “che leggiamo velocemente e non desideriamo particolarmente tenere dopo aver chiuso. Possiamo addirittura essere un po’ imbarazzati a essere colti mentre li leggiamo.”
Il pensiero va immediatamente alle “50 sfumature di grigio” che infatti Carr menziona come tipico fenomeno che forse non sarebbe esistito senza gli ebook.
In sostanza, Carr conclude che gli ebook, lungi dal sostituire i libri cartacei, avranno presumibilmente un ruolo complementare, una modalità in più offerta ai lettori, che quindi potranno incrementare, invece che limitare, la loro esperienza di lettura.

Alcune argomentazioni di Carr vengono riprese da questo pezzo su Teleread intitolato non a caso Un futuro per la stampa nell’era digitale: “La gente spesso preferisce i libri cartacei perché può prestarli o regararli, come si fa con qualsiasi altro oggetto”. Si tratta di “un senso di soddisfazione estetica che continua ad essere culturalmente rilevante”.
Tuttavia, continua l’articolo, il ruolo della stampa nella nostra società sta innegabilmente cambiando:BookOnDemandMachine_McnallyJacksonla stampa non è più l’unico veicolo per le notizie e le informazioni e sta diventando un bene di lusso. Non ha quindi più senso stampare in maniera massiva, soprattutto se si considera che oltre il 36% dei libri cartacei finisce al macero: uno spreco e un danno anche ambientale che pesa e peserà sempre di più.
La soluzione individuata e auspicata è quella del print on demand, che toglierebbe all’editore i costi per la logistica e l’incubo delle rese. Inoltre, l’editore si sentirebbe più libero di sperimentare con progetti magari innovativi e molto segmentati per una nicchia di mercato specifica.

Che sia questo uno degli scenari che vedremo svilupparsi a partire proprio dal 2013?

Il tablet oscurerà gli e-reader?

lettura webNel novembre 2011, in occasione di Librinnovando e della presentazione del libro di alcuni blogger (tra cui io) “La lettura digitale e il web”, avevo intitolato il mio intervento: Come convincere mia sorella che l’ebook non è il male, usando come fenotipo del lettore tradizionalmente cartaceo e visceralmente legato all’oggetto-libro mia sorella, grandissima lettrice ma che solo fino a qualche mese fa non avrebbe mai accolto l’idea di leggere su supporto digitale. E invece.
E invece escono i mini tablet e ne viene letteralmente rapita: oltre all’iPad, infatti, si procura un piccolo Samsung (7 pollici) e inizia anche a leggerci alcuni libri, apprezzando del digitale alcune delle caratteristiche evidenziate da eFFe nel suo contributo all’interno del libro suddetto: la reperibilità e la portabilità.

Insomma, va a finire che proprio quella mia sorella che mi guardava storto sin dal 2010 quando squadernavo il mio Kindle keyboard  e che affermava che la lettura per lei era solo cartacea, proprio lei mi supera a destra, bypassando l’e-reader e andando dritta verso il tablet retroilluminato.
Per non essere da meno, ma soprattutto per questioni di lavoro, mi sono deciso anch’io per un tablet a 7 pollici, optando per il Kindle Fire, prima di tutto in ragione del prezzo, inferiore a tutti gli altri tablet nel mercato, e in seconda battuta per la possibilità di sincronizzare libri e documenti con il Kindle 3.

Non intendo fare qui una recensione del Kindle Fire, ma solo testimoniare la mia esperienza di lettore kindle Firedigitale in possesso delle due diverse modalità di lettura digitale, quella “pura” dell’e-reader a inchiostro elettronico e quella multimediale e sempre connessa del tablet che, oltre a leggere, fa un sacco di altre cose – magari un po’ troppe, se si vuole mantenere la concentrazione su quanto si sta leggendo.
Purtroppo (e lo dico sinceramente) per ora devo dire che il possesso del tablet ha sottratto non poche ore di lettura su e-reader, e questo non solo (e non tanto) per la novità dell’acquisto e per il maggior appeal dell’oggetto tablet, quanto invece proprio per il fatto che quest’ultimo è multitasking e mi permette di aver in mano, oltre ai libri del Kindle 3, anche i siti web da me più visitati, la posta, la possibilità di scrivere in qualsiasi momento annotazioni, pensieri e quant’altro (basta scaricarsi Evernote), senza menzionare i giochini i quali, per quanto minimamente, hanno però contribuito a erodere ulteriore spazio alla lettura tout court che invece soleva dipanarsi indisturbata sullo schermo a inchiostro elettronico del buon vecchio Kindle, con la sua estetica vintage che fa quasi tenerezza.

Sinceramente pensavo che lo schermo retroilluminato mi disturbasse di più, invece devo dire che ho letto un intero libello senza sentire affaticamento alcuno, al contrario di altri lettori digitali come Luca “Luke” Albani che nel suo blog recensisce il Kobo Arc parlandone anche molto bene ma dichiara apertamente che per la lettura di ebook resterà fedele al suo ereader e a tal proposito menziona un articolo di Warren Adler sull’Huffington Post in cui si afferma che i lettori forti, pur possedendo anche un tablet, non abbandoneranno facilmente la lettura sui loro “parenti poveri” nati per leggere ebook senza altri ammennicoli e funzioni collaterali.

Sembra quindi che, se il tablet ha ucciso il netbook e sta minacciando il laptop (come afferma anche un articolo su Mashable), non completerà la sua opera omicida anche a spese degli ereader. Per quanto la prospettiva sia in qualche modo romantica e di vago retrogusto nerd-nostalgico, sinceramente (e a malincuore) non mi convince del tutto. Ma magari già il 2013 potrà dirci qualcosa a riguardo.

La questione comunque è piuttosto: con il tablet si legge veramente di meno (intendendo per “leggere” la lettura di ebook e testi di una certa ampiezza)? Quali sono le vostre esperienze a riguardo?

La tecnologia ha qualcosa da insegnarci?

Il 2012 si concludeva con questa intervista ad Antonio Calvani su Pubblico che lasciava perplessi un po’ tutti. Il titolo infatti era: “Solo demagogia, il digitale a scuola non migliora l’apprendimento” il che, detto da un docente di Metodi e Tecnologie educative, suona in effetti a dir poco incoerente. Anche se poi il testo dell’intervista risulta meno asseverativo e provocatorio del titolo (come accade spesso con i quotidiani), l’assunto centrale del professor Calvani è che, ad oggi, “la ricerca educativa basata su evidenza mostra ormai da decenni che in termini di efficacia dell’apprendimento i risultati sono assai modesti”, se non controproducenti.

La domanda che però avrei voluto fosse toccata nell’intervista è: di che apprendimento parliamo? Cosa intendiamo, cioè, per “apprendimento”? Mi è venuto prontamente in soccorso questo bel post di Gianni Marconato che replica in modo molto argomentato alle affermazioni di Calvani e traccia un “endecalogo” sul discusso rapporto tra didattica e tecnologie. Riporto alcuni punti che mi sembrano particolarmente significativi, ma come sempre va letto l’intero post:

– Si è confuso l’utilizzo delle tecnologie con l’innovazione della didattica; le due dimensioni non hanno alcuna correlazione. Usare le tecnologie anche  a scuola è un “banale” processo di adattamento all’evoluzione degli strumenti che la tecnica ci mette oggi a disposizione;

– L’uso delle tecnologie digitali a scuola è un dovere per la scuola stessa e per gli insegnanti: in tutto il mondo al di fuori dalla scuola si usano le tecnologie; non farlo a scuola significherebbe segnare ancor più la lontananza della scuola dalla società;

– Più che di “innovare” l’istruzione, credo sia più utile parlare di rendere maggiormente efficace l’istruzione;

Si arriva poi al tipo di apprendimento a cui si dovrebbe mirare:

Le tecnologie non rendono più facile l’apprendimento perché il loro utilizzo appropriato obbliga gli studenti a pensare in modo più “duro”, ad utilizzare differenti processi di pensiero in modo sistematico, finalizzato.

Su specifici processi cognitivi che sostengono l’apprendimento, cito la teoria della flessibilità cognitiva (la forma di pensiero che sostiene la comprensione di domini di conoscenza complessi ed il problem solving) e la declinazione operativa degli ipertesti per la flessibilità cognitiva.

A questo punto, sarebbe facile fare il solito sillogismo: articolo poco approfondito= articolo di giornale vs. riflessione argomentata (e accompagnata da commenti molto puntuali, come quello di Luigi Parisi  (qui il suo blog, per inciso) = blog curato da esperto in materia.

In effetti sarebbe un (cattivo?) pensiero difficile da smentire, se non ci fossero anche articoli come questo su Repubblica di un paio di giorni fa, in cui Franco Marcoaldi intervista Carlo Ossola, critico letterario e docente al Collège de France: non si parla tanto di tecnologia quanto piuttosto di un modo di apprendere critico e di insegnamento e apprendimento come “lavoro comune”, un processo insomma non erogativo ma condiviso. Parole che somigliano molto a quelle della cosiddetta “intelligenza connettiva” e in generale richiamano le potenzialità che le nuove tecnologie possono offrire per dare un loro contributo in questa direzione.

E’ ovvio che bisogna partire dalla pedagogia e da un nuovo modo di porsi di fronte alla materia e agli studenti: lo si dice chiaramente anche in questo articolo sul Sole 24 Ore, dove poi la parola viene data agli editori specializzati, i quali dichiarano (ovviamente, direi, visti gli interessi in gioco) la non incompatibilità tra carta e digitale, ribadendo uno dei concetti chiave della cosiddetta didattica 2.0 in cui “non contano tanto le conoscenze e le competenze individuali, ma il mettere insieme i saperi per costruire un’intelligenza condivisa”.

Infine, un link che solo apparentemente può sembrare poco attinente al tema: il pensatore Fernando Savater parla su L’espresso di questa crisi mondiale e del modo in cui possiamo affrontarla: al primo posto c’è l’istruzione, necessaria, se non indispensabile, per capire e analizzare le nuove dinamiche dei tempi e dominarle, invece che esserne succubi.
Mi piace pensare che in questo possiamo e dobbiamo far uso anche delle tecnologie. Senza demagogia, ma anche senza eccessiva diffidenza . Voi che ne pensate?

Per altri articoli sull’argomento, qui la sezione sulla didattica e le tecnologie di questo blog.