Alcuni articoli interessanti che ho recentemente letto evidenziano, se ce ne fosse ancora bisogno, quali sono le tendenze in atto nel campo dell’educazione digitale e come si sta configurando quella “scuola 2.0” di cui tanto si parla e che sicuramente vedrà la luce, anche se non si sa con sicurezza quando o come.
Il primo articolo parla delle tecnologie mobili, sostenendo che saranno la spina dorsale su cui si baserà l’industria dell’educazione a distanza in futuro. Due domande sorgono spontanee: quale futuro (prossimo, remoto)? E quali dispositivi mobili? Se volete sapere cosa ne penso, sinceramente non credo molto nell’uso dei cellulari in classe. Concordo sul fatto che tra pochissimo ogni ragazzino sarà proprietario di uno smartphone che potrebbe (il condizionale è d’obbligo come non mai) essere usato in maniera didattica. Piuttosto credo che altrettanto rapidamente si diffonderanno i tablet (i cui prezzi scenderanno presto in maniera notevole) i quali sostituiranno i libri di testo, prima come supporto e poi come concetto stesso di materiale didattico.
Questo ci porta al secondo articolo, che pone i presupposti essenziali per entrare in nuovo modello didattico basato sulle tecnologie e su quel “self directed learning” che si realizza con una connessione continua e libera alle risorse della Rete (più Wi fi più conoscenza?) e una qualità di contenuti sempre maggiore.
Ma anche questo, secondo me, non basta ancora. Sono d’accordo che il web propone un modello pull che si contrappone a quello push laddove il primo va incontro alle esigenze individuali e il secondo a quelle “di massa” (scusate il sapore un po’ vintage di questo termine). Anche un altro articolo sottolinea come il Cloud potrà portare a un sistema educativo (o almeno cognitivo) ubiquo, dove in qualsiasi momento e da qualsiasi postazione lo studente (giovanissimo o adulto che sia) avrà la possibilità di accedere a risorse inimmaginabili fino a pochi anni fa. Concordo ma, ribadisco, non basta.
Arrivo quindi all’ultimo articolo, non nuovissimo ma secondo me molto interessante, che sintetizza e sistematizza alcuni concetti che qui riassumo e in parte traduco (l’autore è Teemu Arina, un giovane esponente della cosiddetta “intellighenzia digitale” sorta recentemente nel e grazie al web):
– Con Internet si è passati dal concetto di trasmissione di notizie e di conoscenze a quello di flusso. Flusso che non ha più una sorgente unica, ma miriadi, dato che ogni utente è al tempo stesso consumatore e produttore di informazioni .
– Questo sposta l’asse didattico dal mondo dell’educazione al mondo della conoscenza, una conoscenza ubiqua, onnipresente ma proprio per questo sfuggente e non ben definibile o riconoscibile, dove l’insegnante non è più l’unica fonte a cui lo studente attinge il sapere e deve quindi trasformarsi il tutor, in guida capace di formare nei ragazzi quella coscienza critica sempre più necessaria per districarsi in un overload di stimoli e informazioni da cui rischiano di essere sopraffatti (e quindi di accettare solo quello che sembra più facile da comprendere).
La trasformazione è notevole e necessita di un nuovo modo di interpretare ed elaborare i contenuti, i quali dovranno essere differenti, provenienti da media diversi e condivisi in modalità diverse (sincrona/asincrona, collaborativa-creativa, orizzontale/verticale). Non caso si parla sempre più frequentemente di flipped classroom, in quanto al tradizionale modello di aula e di lezione strutturata in maniera frontale o comunque facendo uso di strumenti poco flessibili (libri testo monolitici, lavagne – anche interattive – poco dinamiche) si oppone un nuovo paradigma didattico più social, distribuito e informale dove anche la valutazione deve basarsi su nuovi criteri e nuove competenze. Una valutazione anch’essa in divenire e non statica, che tenga conto di come sia cambiato il pensiero di una persona e si sia sviluppata la capacità di risolvere i problemi non in modo isolato dal resto del mondo, ma proprio grazie alla connessione con il mondo stesso.
Di come cioè si sia sviluppato un pensiero non collettivo, ma connettivo, per dirla alla De Kerchove.
Interessante, per quanto riguarda la certificazione delle competenze, la suddivisione in tre livelli:
– il primo livello è quanto noi stessi dichiariamo di sapere, pensando di conoscere le nostre effettive competenze.
– il secondo livello è quanto gli altri dicono di noi. Il concetto che sta alla base di questa valutazione è: il tuo progresso sta avendo un riscontro presso gli altri, ciò che elabori ha valore anche per gli altri, possono usarlo o farne tesoro o rimane invisibile perché non offre nessun apporto originale?
– Il terzo livello è il certificato ottenuto da un’autorità o da un’istituzione. Se prima era sufficiente una singola autorità a decretare una valutazione che venisse riconosciuta, ormai sono necessarie diversi gradi e diversi momenti in cui questa valutazione possa essere considerata significativa. Il flusso continuo in cui siamo immersi non permette di fossilizzare le nostre competenze né tantomeno il loro riconoscimento.
La mente estesa
Mente, corpo e ambiente sono strettamente interconnessi e non separabili. Questo è un dato di fatto. Gli oggetti che fanno parte dell’ambiente giocano quindi un ruolo importante nel nostro processo congnitivo. Ora, questi strumenti stanno cambiando. Dalla tv siamo passati al web, dalla connessione fissa siamo passati a quella in mobilità. In sostanza, dalla memorizzazione siamo passati alla interazione, dalla trasmissione verticale alla condivisione orizzontale. Se è vero – come reputo lo sia – che “le tecnologie più profonde sono quelle che scompaiono, assorbite completamente nel tessuto della nostra quotidianità tanto da non distinguerle più da essa” (Mark Weiser), dovremo preparaci a non considerare più le tecnologie mobili (smartphone, tablet) per se stesse, ma iniziare a integrarle nel nostro ambiente, considerandole parte di esso. Solo in questo modo potremo iniziare a parlare concretamente di “scuola 2.0” ed educazione digitale. Solo in questo modo il paradigma educativo e didattico potrà essere ridiscusso su presupposti non negoziabili.
E in tutto questo, gli editori specializzati che peso e ruolo avranno? Saranno ancora indispensabili o i materiali didattici fai-da-te (che vengano da Apple o, come si dice bene qui, realizzati in molti altri modi) porteranno scompiglio e panico anche nell’educational? Di sicuro dovranno anch’essi ripensare al proprio modello di business (e sembra che i maggiori colossi abbiano già iniziato a farlo, come si dice anche qui), un modello in cui il libro di testo perde la sua centralità e soprattutto la sua compattezza, dove si offrono non solo e non più materiali, ma contenuti e altro valore aggiunto, costruendo attorno allo studente un vero e proprio ambiente di apprendimento.
Tutto sta a capire se la scuola sia davvero pronta per un tale tipo di sisma strutturale e
metodologico. In Italia ci sono casi virtuosi, è vero, ma anche abbondano scuole fatiscenti dove i genitori devono portare la carta igienica e comprare materiale che l’istituto non è in grado di assicurare. C’è il timore che il digitale approfondisca ulteriormente il divario tra scuole di serie A e quelle non di B, ma di serie C. Dove la differenza non sarà tra lavagna multimediale e quella tradizionale, ma tra connessione Wi fi e uso di tablet da una parte e dall’altra lavagne di ardesia e un sapere trasmesso in modo ormai anacronistico e sempre meno compreso dai ragazzi. Insomma, temo un rischio di incongruenza tra contenuto e contenitore, tra esigenze della nuova realtà e la realtà della scuola.