CHAT GPT e la scuola: o la va o la spacca

Se ne parla tanto, sicuramente troppo, e anche ciò che sto scrivendo non sarà che un contributo al ronzio di fondo, ma a me serve per mettere un po’ in ordine le idee, e spero sia d’aiuto anche ad altri.

La prima cosa che ho pensato è stato: finalmente. Finalmente è arrivata una tecnologia veramente disruptive, di quelle cioè che tracciano un solco tra ciò che c’era prima e quello che troveremo poi, come è stato ai tempi per l’avvento di internet, dei dispositivi mobili poi, infine dei social network. Di quelle che, finalmente, renderanno presto desuete e datate molte cose scritte sulla didattica e le tecnologie negli ultimi 20 anni (compreso, ahimé, il mio saggio, che aveva saputo rimanere attuale per ben 8 anni, grazie alla stagnazione delle pratiche e del dibattito).

L’intero impianto metodologico-didattico è riuscito a resistere in maniera inalterata, o quasi, a tutte le tecnologie elencate poc’anzi, rendendo l’integrazione di — o almeno la riflessione su — tecnologie e scuola una prerogativa solo di poche eccellenze, di docenti tanto ben disposti quanto minoritari, di rari dirigenti scolastici lungimiranti. Sempre eccezione, mai sistema. Fare sistema, si sa, è molto impegnativo, complesso, richiede energie, riflessione e tempo. Molto più facile buttarla in caciara, come si dice a Roma, cioè polarizzare il dibattito invece che affrontarlo; più facile propagare la logica dell’aut aut (o solo digitale o solo analogico) e alimentare l’antitesi tecnologia / fattore umano, invece che trovare una sintesi tra le potenzialità e i limiti dell’una e dell’altro per individuare percorsi nuovi, adatti a esigenze e a contesti differenti, perché le esigenze e i contesti non sono mai identici, sebbene le lezioni, gli orari, i libri di testo, i percorsi di studio siano ancora imperniati sulla nefasta logica one size fits all e su battaglie di totale retroguardia, come se ciò che è stato insegnato e come è stato insegnato dovesse essere replicato di generazione in generazione, non importa se fuori cambiano le regole, i presupposti, le modalità di accesso alle informazioni, se aumentano i rischi di non saper utilizzare al meglio questi nuovi strumenti e di non sapere come sfruttare al meglio queste modalità.

Ora, finalmente — lo dico e lo ripeto — è entrato in scena l’elemento che, più di ogni altro, imporrà veramente le nuove regole del gioco. Irrimediabilmente. E non basterà vietarne puerilmente l’uso in classe, come si fa (con scarso successo) con gli smartphone. L’Intelligenza Artificiale sta arrivando, è già qui, e dilagherà ovunque. Quella che vediamo ora, Chat GPT, è solo l’ombra di ciò sta per incombere, è il primo vagito di una creatura che ancora non sappiamo come e in che misura e in che tempi sarà in grado di crescere, svilupparsi e prendere il controllo sulle nostre vite. Già lo sta facendo, per il momento come i neonati sono capaci di rivoluzionare la nostra esistenza al loro arrivo. Ma presto, tra qualche anno, rideremo di quanto fosse primitivo quello che ora ci sembra un miracolo tecnologico.

Sono in tanti a essere terrorizzati dalla creatura, ma tra i più impauribili e impauriti ci sono ovviamente gli insegnanti: “Gli studenti copieranno ancora di più”. Chat GPT è il compagno/la compagna secchione/a che ti passa il compito sotto il banco; è la persona a cui affidare la stesura della tesi, ma senza pagare un euro. Chat GPT è l’incubo di ogni insegnante che abbia ancora in mente quel tipo di scuola di cui si parlava qualche paragrafo sopra. Di qui il titolo piuttosto esplicito che ho voluto dare a questa mia riflessione: sarà finalmente l’Intelligenza Artificiale della macchina in grado di fare ciò che per decenni l’indolenza naturale dell’essere umano ha sempre temuto e rimandato, paventato e procrastinato? (detto tra parentesi, appunto: non è un caso che Don Abbondio sia sempre così presente nelle aule scolastiche)

Per ora Chat GPT, pur nella sua forma primordiale, sta dicendo molto chiaramente alcune cose: se ci accontentiamo di un banale lavoro di sintesi, di aggregazione di dati anche solo superficialmente ragionata, di elencazione di elementi, di elaborazioni minimamente corrette per compiti convenzionali, da qui in poi saremo facilmente ingannati. Se insisteremo a privilegiare da una parte la sacralità della scrittura, dall’altra il ragionamento lineare, omologato e omologante, saremo facilmente ingannati come insegnanti e inganneremo sempre più facilmente noi stessi come studenti. Se continueremo con la lezione tradizionale, unidirezionale e nozionistica, inganneremo in modo infantile noi stessi come insegnanti e maniera esiziale i nostri studenti. Ma è giunto il tempo che la scuola offra — e chieda — di più.

Welcome to the machine

La Macchina è più di noi: è più rapida nell’esecuzione, in grado di contenere più informazioni, più dati, di assemblarli e rielaborarli in maniera straordinariamente efficace. Ma la Macchina siamo noi. Siamo noi che impostiamo i suoi dati e quindi definiamo le sue risposte, che escludiamo ed elaboriamo le informazioni in input e quindi determiniamo l’output. La Macchina cambierà il modo in cui lavoreremo, creeremo, studieremo. Deve anche, di conseguenza, cambiare il modo in cui insegneremo? Io penso di sì. Saremo all’altezza della Macchina, o meglio, della Macchina e di noi stessi?

L’uso dei dispositivi mobili in classe: questione di atomi, non di bit

A proposito del dibattito sullo smartphone in classe

la mutazione nella connessione

Nel dibattito comune la “normalità” del digitale viene vissuta male, in particolare quando se ne parla associandolo al mondo dell’educazione.

Riflettere sui dispositivi (devices) e sulle pratiche connesse non significa ritenere che siano questi gli elementi centrali dell’innovazione scolastica ma significa riconoscere che la forma dell’esperienza e dei saperi assume una natura diversa all’interno di universi mediali differenti e oggi questi strumenti sono parte delle vite (non solo) delle nostre figlie e dei nostri figli.

L’uso dei dispositivi in classe rappresenta quindi una sfida e un’opportunità culturale per la scuola. È a partire da questa consapevolezza che abbiamo lavorato nel Gruppo di lavoro per la valutazione dell’uso dei device digitali personali in classe, costituito con decreto della Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli.

Il lavoro svolto è anche una presa d’atto, quella della diffusione di dispositivi e connessione differente e disomogenea ma comunque consistente e quella dell’esistenza di…

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Il culto del libro

All'ombra di una quercia

culto del libro

Se c’è una cosa che non ho mai sopportato è la distinzione tra bene e male. Sentire questi due sostantivi all’interno di una qualsiasi frase mi provoca un forte prurito al sarcasmo e il mio medico di fiducia (nel senso che finché non capirò quello che scrive dovrò fidarmi di lui) mi ha prescritto come cura 30 secondi di silenzio da masticare subito dopo il contatto con i due allergeni.
Se ve lo state chiedendo, funziona male. Salva la situazione, ma trasforma il prurito al sarcasmo in un bruciore di stomaco. Vita tua, mors mea. Mi piace pensare di essere un tipo altruista.
Il bisogno psicotico di far rientrare ogni aspetto della vita umana nell’una o nell’altra categoria, scientificamente conosciuto come sindrome da Barbara D’Urso (figura medievale famosa per alcuni manoscritti apologetici riguardanti un venditore di concime, tale Auditel da Mediaset), può applicarsi a molti contesti della vita, primo fra tutti: l’ambito religioso.

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Wikipedia in classe? Una questione di responsabilità

L’utilizzo di Wikipedia nelle ricerche scolastiche è diventato uno degli argomenti più dibattuti tra educatori e insegnanti. Un interessante articolo su Edudemic mette giustamente in guarda prima di tutto dal manicheismo sempre in agguato e invita a valutare sobriamente i pro e i contro di Wikipedia per trarne poi delle conseguenze equilibrate.
L’articolo non è lungo e invito a leggerlo integralmente, qui ne faccio una sintetica traduzione, accompagnata da alcune riflessioni personali.

I pro
Curatori specifici: Wikipedia assegna la supervisione delle pagine a dei curatori wikipedia-logo-en-bigspecifici, in modo che gli errori siano corretti rapidamente.
I curatori sono inoltre più di uno, quindi i controlli sono fatti da più occhi e ogni eventuale dubbio viene affrontato da prospettive differenti.

Aggiornamenti frequenti: chi usa Wikipedia lo sa bene e spesso si ironizza sul fatto che la morte di qualche personaggio noto è annunciata prima da WIkipedia che dalle agenzie stampa: questo perché ogni voce è sottoposta a controlli e revisioni costanti.

Trasparenza: si tratta sempre di una questione delicata per chi lavora con minori e in un contesto scolastico. In questo caso, tutto è pubblico, anche i messaggi sulla pagina dell’utente; così i ragazzi non avranno contatti nascosti con nessuno.

I contro
Informazioni faziose: le informazioni provengono da volontari, non giornalisti professionisti, quindi il rischio di faziosità è alto. Questo, però, a mio modesto parere, non è ormai più una caratteristica peculiare di Wikipedia,considerata la faziosità manifesta di non poche testate giornalistiche ufficiali e di blog anche molto seguiti; per non parlare della sempre maggiore tendenza di diffondere e di credere alle cosiddette “bufale”, che rendono la capacità di filtrare e valutare le informazioni ancora più indispensabile.

Mancanza di diversità tra i curatori:  a quanto sembra sia emerso da una ricerca, circa il 90% dei curatori volontari che si occupano di Wikipedia è composto da maschi. Ciò aggiunge un ulteriore elemento alla sopra menzionata questione della faziosità, senza poi considerare eventuali (e non note) caratteristiche, come l’etnia o l’estrazione socioeconomica.

Interazioni con sconosciuti: sebbene, come detto sopra, le interazioni siano sempre pubbliche, ciò non toglie che gli studenti entrano comunque in contatto con degli estranei, per cui è bene raccomandare la massima cautela nel fornire informazioni private.

Utilizzo in classe
Punto di partenza per una ricerca: Wikipedia è quasi sempre la prima voce che compare in una qualsiasi ricerca su un qualsiasi argomento. Perché non farne effettivamente il punto di partenza per lo studente? Se è vero che Wikipedia non può essere l’unica fonte utilizzabile, può essere comunque quella da cui partire, anche perché fornisce all’utente una buona organizzazione interna dei contenuti, nonché una lista di link alle fonti consultate.

Analizzare le citazioni: alcuni articoli di Wikipedia hanno citazioni ben fatte, che rimandano a contenuti sul web o a libri: se si trova una pagina senza citazioni, si può creare un account di classe per aggiungere citazioni come curatori di Wikipedia.

Fare lezioni su come validare il materiale: chiedere agli studenti di selezionare alcune informazioni tratte da Wikipedia per verificarle e rafforzarle con ulteriori fonti, sia cartacee che digitali.

Inviduare i passaggi faziosi: fare cercare agli studenti le informazioni o i dati che indicano una qualche forzatura da parte del curatore, sia essa di natura politica, o di tipo sessista, o razzista.

Come si nota, le attività suggerite rappresentano delle buone pratiche per qualsiasi tipo di ricerca,in quanto la capacità di filtrare, di verificare e di valutare le fonti è una delle competenze più importanti in un’epoca in cui la tecnologia ha capovolto il rapporto tra scarsità e abbondanza riguardo alle informazioni: se infatti fino a pochi lustri fa la scuola operava ancora in un contesto esterno dove le informazioni erano, se non scarse, comunque più erogate (e controllate, elaborate, manipolate) dai media di massa, la situazione in cui si trovano ora gli studenti è di un flusso informativo continuo, simultaneo, ubiquo, dove ogni utente diventa potenziale fonte a cui attingere nuovi dati, nuovi tasselli che si può scegliere o meno di utilizzare nella propria personale ricerca e costruzione della conoscenza.
Questo è un tema che personalmente mi sta molto a cuore, come sa chi ha avuto l’occasione di leggere il breve saggio Il digitale e la scuola italiana, in cui tocco la questione di Wikipedia in modo solo laterale, approfittando quindi di questo spazio dedicato agli approfondimenti per metterla più in primo piano.
Chi invece ha trattato molto bene il tema è stato Roberto Casati, che non a caso ha intitolato uno dei capitoli del suo noto saggio Contro il colonialismo digitale “Perché non correggete anche voi Wikipedia?”, proponendo un’intelligente attività che può essere benissimo replicata in classe.
Per dirla con le sue parole: “Uno degli effetti secondari di un’enciclopedia libera è di aver creato implicitamente una grande scuola di curatori editoriali. Il che, mi sia permesso di dirlo, è anche un contributo alla democrazia. Ma è essenziale, perché questa funzione sia svolta intelligentemente, che resti una traccia delle correzioni (la “discussione”* di Wikipedia). Correggere è un’arte, ma soprattutto una responsabilità”.

Da sempre conoscenza e responsabilità sono (o dovrebbero essere) un binomio indissolubile: la prima non dà frutto senza la seconda, la seconda non matura se non ha il supporto della prima. La tecnologia ha reso questo connubio forse più fragile, ma ci offre anche gli strumenti per farlo più indissolubile. Sta anche e soprattutto al sistema educativo fornire le chiavi interpretative per operare questa saldatura.

Un altro libro in cui si parla di utilizzo didattico di Wikipedia è It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web di Danah Boyd, che suggerisce di fare tesoro proprio della “stratigrafia” delle correzioni dei curatori di Wikipedia per analizzarla con gli studenti, in modo da capire quanto sia complesso il processo di analisi, valutazione e modifica di informazioni. 

Come sta l’ebook? Bene, male, dipende

In questo periodo si parla molto dello stato di salute dell’ebook, soprattutto in U.S.A. e Gran Bretagna, i due mercati principali. Perché? Perché dopo anni di ascesa quasi esponenziale, il 2014 ha visto questa spinta affievolirsi in maniera sensibile. Ma attenzione: da una parte i dati forniti non tengono conto di un player come Amazon (che si sa, detiene la fetta più grande del mercato di libri digitali), dall’altra in Italia, almeno stando ai dati AIE diffusi in questi giorni alla Buchmesse di Francoforte, le cose per l’ebook non sembrano andare così male, anzi: l’ebook è uno dei (pochi) settori che fa registrare il segno più, raggiungendo i dati di vendita dei libri cartacei della grande distribuzione. Interessante, inoltre, il dato che evidenzia un rapporto sempre più stretto tra evento e vendita di libri, che sottolinea l’importanza crescente dei festival e degli incontri con gli autori. Qui sembra che libro e musica, travolti dal digitale, seguano la stessa traiettoria: più che il negozio, conta ora il concerto, il reading, la presenza fisica di autore e pubblico insieme nello stesso spazio.

Un articolo di qualche mese fa suThe Bookseller confrontava l’andamento del mercato librario in Gran Bretagna e negli Stati Uniti: le vendite di ebook rappresentano il 17% del valore totale, ma per i romanzi la percentuale è del 37%, chiaro segnale che “i lettori continueranno ancora a richiedere un mix flessibile di cartaceo e digitale, senza che uno dei due pattern predominerà”.

L’articolo poi fa varie riflessioni sulle possibili cause del fenomeno e analizza più in dettaglio alcuni segmenti. Consiglio a chi fosse realmente interessato di leggersi integralmente il pezzo, di cui sintetizzo rapidamente alcuni dati:

  • è difficile individuare una vera crescita del digitale nei prodotti editoriali per giovanissimi lettori: in sostanza si rileva ancora l’importanza del libro cartaceo nelle vite dei bambini, nonostante il sempre costante uso di internet e della tecnologia.
  • Se si fanno i conti in tasca ai Big Five — Penguin Random House, Hachette, HarperCollins, Pan Macmillan — l’aumento delle vendite di ebook sale a +15.3% rispetto al 2013: ma i ricavi relativi crescono solo del 6.8%. Segno che il prezzo medio diminuisce (o gli acquirenti comprano più ebook a basso prezzo) e quindi i margini per l’editore si restringono. “In other words, growth comes at a cost.”
  • Il mercato scolastico digitale deve ancora svilupparsi, ma quello accademico è molto più vitale.

Cosa diventerà l’ebook?

Tuttavia, sostiene un altro articolo su Digitalbookworld, se si pensa che il digitale sia in fase di regressione, ci si sbaglia di grosso. E spiega perché.

Steven Sinofsky’s Four Stages of Disruption

Nel farlo si affida a una teoria di Steven Sinofsky, ex presidente Microsoft, che ha individuato 4 fasi nel processo di disruption (chiamiamola “discontinuità”) che reca con sé la tecnologia:

FASE 1 — Disruption of Incumbent: l’innovazione è un bel giocattolo, ma non è vista come fondamentale per il proprio business. Nell’editoria digitale, dice l’articolo, si può parlare degli anni 2007–2010.

FASE 2 — Rapid Linear Evolution: l’innovazione prende una nuova traiettoria e viene percepita come tale, ma è ancora solo tollerata, sebbene si accetti di incorporarla gradualmente nel proprio processo di produzione. Per l’editoria digitale si parla degli anni 2010–13.

FASE 3 — Appealing Convergence: la discontinuità è avvenuta, ma il mercato si stabilizza. Si verifica una forma di convivenza mista digitale-analogico. Siamo per l’editoria in questo attuale periodo, il 2015.

FASE 4 — Complete re-imagination: è l’ultimo stadio della teoria di Sinofsky, quando cioè una categoria o una tecnologia viene rivista, reinterpretata e reinventata dalle fondamenta. Per l’editoria questa fase deve ancora iniziare, e allo stato delle cose è difficile dire quando ciò accadrà.

In un post di un anno fa avevo già parlato di mimesi ancora troppo fedele del digitale rispetto al cartaceo e di “traduzione troppo letterale” che l’ebook opera ancora, faticando a trovare una sua sua via per dare vita a nuove modalità di elaborazione e fruizione dei contenuti. Anche nel settore dell’editoria scolastica si avverte molto questa fase di transizione, quasi che l’ebook sia solo una crisalide da cui si attende con trepidazione che ne esca una meravigliosa farfalla che stupirà tutti per la sua bellezza. Non posso però concludere senza citare due riflessioni dell’articolo Publishing’s Digital Disruption Hasn’t Even Started fin qui sintetizzato e, in parte, tradotto:

Pensate a come altre industrie hanno vissuto questa fase di disruption: Uber, la più grande compagnia di taxi, non possiede nemmeno un veicolo; Facebook, il più popolare proprietario mediatico, non possiede contenuti; Alibaba, il venditore più valutato, non ha un magazzino. Airbnb, il più diffuso sistema di alloggi, non possiede nemmeno un’agenzia immobiliare.

Tutto ciò mi ricorda in qualche modo una frase del mio amico Mauro Sandrini nel suo Elogio degli ebook: il fatto che i giovani non comprino più cd non significa che non ascoltano più musica. Anzi, ne ascoltano come e più di prima. Solo che cambiano le modalità in cui viene fruita e diffusa.

Infine, l’ultimo pensiero va agli editori: Ironicamente, uno dei talloni d’Achille degli editori — la loro presunta impenetrabilità e inadeguatezza nei confronti dell’innovazione — potrebbe nei fatti aiutarli ad attutire l’impatto delladisruption. Comunque, non la fermerà.