Un articolo su repubblica.it intitolato “Niente ebook, siamo studenti” ha incentrato il dibattito della settimana sulla diffidenza dei giovani nei confronti del supporto digitale: secondo una ricerca dell’Aie, gli studenti universitari ancora preferiscono, per la lettura e per lo studio, il buon caro libro cartaceo.
Ha commentato questi dati aggiungendo la sua esperienza personale di docente a Urbino il sempre ottimo Giuseppe Granieri sulla Stampa (“Gli studenti, tra la stampa e l’ebook“), il quale legge positivamente il dato che comunque uno studente su cinque studi su ebook, data la ancora recente introduzione del digitale nel Belpaese, e afferma che è solo una questione di tempo. In un breve scambio di battute in chat che ho avuto poi con lui, Granieri afferma che mancano ancora i driver giusti per accelerare la curva di apprendimento e creare nuove abitudini, soprattutto quando si parla di cultura.
Parlando di driver giusti Giuseppe intende, per esempio, l’abbassamento del prezzo dei tablet e quindi una loro maggiore diffusione (secondo la ricerca succitata, solo uno studente su 10 lo possiede, mentre circa la metà è in possesso di uno smartphone).
Se però diamo uno sguardo oltreoceano, dove i driver sono attivi da tempo e i tablet sicuramente più diffusi che in Italia, notiamo che anche gli studenti statunitensi preferiscono ancora la carta al digitale. Le ragioni sono ovviamente diverse da quelle dei loro coetanei italiani, ma risulta molto interessante analizzarle perché potremmo farne tesoro una volta che la curva di apprendimento verrà superata: si parla infatti di problemi di interoperabilità, di formati chiusi che non permettono un social reading esteso e propriamente detto, di costo eccessivo dei testi anche in formato digitale, che hanno poi il limite di non poter essere comprati di seconda mano.
Se quindi da una parte è indubbiamente vero che si tratta di una questione di tempo per vedere gli studenti familiarizzare con il digitale, penso sia anche necessaria una riflessione su come procedere per fare in modo che questo rapporto sia poi veramente vantaggioso, efficace e produttivo, sia per gli utenti sia per gli editori e tutti coloro che concorrono alla realizzazione dei materiali in formato digitale.
Se ne è parlato -anche di questo, manco a dirlo – all’ultima edizione di Librinnovando e a questo proposito consiglio vivamente di vedere lo streaming della sessione “Insegnare con i bit”, dove da una parte i presenti hanno avuto l’occasione di conoscere da vicino l’esperienza di Dianora Bardi che ormai da un paio d’anni lavora solo con i tablet e ha abolito i libri di testo; dall’altra si è assistito a un notevolissimo intervento di Dino Baldi (direttore del dipartimento digitale di Giunti Scuola; lo trovate a partire dal minuto 27 dello streaming), che esprime i dubbi, le perplessità dell’editore, ma anche la voglia – e la necessità – di mettersi in gioco in maniera decisa e coraggiosa, per non rischiare di “produrre qualcosa che quando sarà pronto non servirà già più”.
Ecco, la chiave penso sia questa. Se si attende soltanto, si rischia che quando gli utenti saranno pronti avranno poi strumenti e materiali non più adeguati alle loro necessità. Lo si intravede, anche in questo caso, negli USA dove gli studenti che apprendono in LMS (Learning Management System, in pratica ambienti digitali di apprendimento) trovano queste piattaforme non adeguate alle loro reali esigenze (leggi per esempio qui). Anche Baldi menziona l’online e, parlando di apprendimento mobile riassume in quattro punti i passaggi necessari in questo settore:
1. Passaggio da oggetti di apprendimento ad ambienti di apprendimento;
2. la ridefinizione di granularità dei materiali;
3. passaggio da una logica editoriale chiusa a una aperta;
4. l’evoluzione verso un modello di business più aperto e flessibile (dal prodotto al servizio).
L’intervento di Baldi, lo ripeto, vale la pena di essere visto per intero (sono meno di 20 minuti e l’esposizione chiara e lucida di Baldi li fa passare in fretta) perché pone di fronte a tutti i player una sfida enorme, oserei dire epocale, per l’editoria. Baldi ha compreso perfettamente che lavorare per la didattica significa fare i conti molto presto con contesti di apprendimento che altrove sono già realtà: si chiamano Blackboard, Canvas, Knewton, ambienti digitali dove l’oggetto didattico non consiste più nel libro (il monolite che lo stesso Baldi considera sorpassato), ma in materiali flessibili, personalizzabili, articolabili in più soluzioni per fronteggiare molteplici esigenze di intervento didattico.
Ambienti dove la conoscenza è condivisa, co-creata, orizzontale, come l’esperienza di Dianora Bardi ci insegna.
Si tratta di una sfida davvero notevole, ma che va necessariamente accolta sin da ora, per comprenderla ed elaborarla nella maniera più intelligente, matura ed efficace possibile, in modo da non trovarsi tragicamente impreparati in un futuro molto vicino. Quando, come dice l’articolo di Repubblica citato all’inizio, i veri nativi digitali entreranno in classe e troveranno un mondo e un modello di (in)formazione che non gli appartiene, ancor meno di adesso.
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L’immagine posta a inizio articolo è tratta da qui.