l’Italia dei libri, ma non dei lettori: alcune considerazioni sui dati Nielsen

ImmagineAlcune rapide considerazioni sul tema del momento, i dati del rapporto sull’acquisto e la lettura di libri in Italia nel triennio 2011-2013, commissionato dal Centro per il Libro e la Lettura all’agenzia Nielsen.

Il primo dato è il calo medio sia nella percentuale dei lettori (dal 49% al 43%) che degli acquirenti (dal 44% al 37%). E si parla sempre di “chi ha acquistato/letto almeno un libro in un anno”. Uno. In un anno.

Dal momento che il triennio preso in considerazione corrisponde anche a quello in cui la lettura digitale ha iniziato la sua espansione, qualcuno si è legittimamente chiesto se gli ebook abbiano in qualche modo compensato l’emorragia del cartaceo. Se ci si basa sui dati, questi dicono che a fronte di un calo del 9% di acquirenti e di lettori su carta è corrisposto un incremento rispettivamente del 14 e del 17% su cartaceo. Sembrano cifre confortanti, ma lo sono un po’ meno seImmagine Immagineanalizziamo il parallelismo carta e diigitale: qui infatti vediamo che al calo menzionato in precedenza di 7 punti percentuali tra gli acquisti di libri dal 2011 al 2013, per gli ebook l’incremento registra solo un punto, dall’1 al 2%. Lievemente maggiore, comunque in crescita, la relazione tra lettori di ebook nel triennio, in cui si registrava un 2% di lettori digitali nel 2011, mentre nel 2013 erano il doppio. Quelli cartacei nel frattempo sono scesi dal 48 al 42%. Anche in questo caso, mi sembra in ogni modo che il consuntivo sia in perdita, ma forse sono io che vedo il bicchiere mezzo vuoto.

Certo il numero di ebook acquistati nel triennio ha registrato un aumento molto consistente, passando da 1 a 4 milioni (+291%); se poi si parla di ebook letti si arriva anche a 7,4 milioni (dai 3,4 del 2011).

Appare quindi chiaro che l’ebook è in continua crescita, seppure forse meno dirompente di quanto non supponessero gli entusiasti del digitale, soprattutto prendendo come parametro la crescita quasi esponenziale negli USA. Ma  né gli editori italiani né le abitudini dei lettori non sono come quelle statunitensi e c’era da prevedere che la prudenza editoriale nei confronti dell’ebook si riflettesse sui dati di acquisto e lettura, come infatti è  successo. Inoltre, mi sembra indubbio il fatto che chi ha speso per un ereader è soprattutto un lettore forte, quindi si tratta sempre di un rafforzare bastioni che erano già ben presidiati. Insomma, non si parla di un recupero di lettori, a mio modo di vedere, ma di un rafforzamento o di nuove abitudini di lettura da parte di lettori già attrezzati.

Un dato che invece mi sta a cuore rilevare è il seguente: quasi il 60% delle copie acquistate sono nella fascia di prezzo sotto i 10 euro: 23% tra gli 11 e i 15 euro, il restante oltre questo prezzo. Inoltre, la fascia di prezzo inferiore ha guadagnato il 5% di acquirenti, tanti quanti ne hanno persi le fasce superiori.

Tutto questo fa inevitabilmente sorgere la domanda se magari non sarebbe ora che gli editori iniziassero a fare maggiore attenzione alle politiche di prezzo da una parte, ma anche a quelle editoriali dall’altra. In pratica, almeno tre o quattro punti credo sia d’obbligo accennarli:

prezzo inferiore per le prime edizioni (non è accettabile che una brossura anche poco elegante di un libro di 106 pagine di testo a corpo non piccolo sia venduta al prezzo di 15 euro – non voglio fare nomi, ma è un caso vero e recente);Immagine

– una minore bulimia produttiva, che porta nelle librerie un numero irragionevole di titoli spesso non all’altezza del nome dell’editore e/o della collana in cui sono inseriti;

– maggiore cura nell’editing e attenzione nei confronti dell’oggetto libro;

– riconsiderare la politica degli anticipi agli autori considerati forti e che magari poi tanto forti non sono, o comunque non da giustifcare le cifre pattuite. Magari i soldi risparmiati potrebbero essere investiti in politiche per la promozione della lettura, mirando soprattutto alle biblioteche e alle scuole.

Che poi alla base di tutto ci sia anche una forte esigenza di ritessere da zero una cultura della lettura, un’educazione civica che veda nel libro uno strumento necessario e non accessorio per la vita, questo è quasi scontato. Ma ognuno deve fare la sua parte. E quella degli editori non mi sembra affatto secondaria.

Per chi è interessato a un punto di vista sicuramente più autorevole del mio,  può leggere l’intervento di Loredana Lipperini intitolato “Perché il rapporto Nielsen sulla lettura deve farci paura“.

Segnalo infine l’interessante discussione nata da un intelligente post (e non poteva essere altrimenti) di Gino Roncaglia sulla sua pagina facebook: Pubblicazione di Gino Roncaglia.

La scolastica e il giornalismo hanno (forse) qualcosa da imparare dal modello Oyster

Stavo per scrivere un post solo sull’editoria scolastica (o meglio: sulla scuola e le tecnologie) quando eggo su Wired Italia questo articolo intitolato Dove sta andando il giornalimo digitale? (da leggere anche i link al suo interno); sommo i due argomenti con un altro di cui si è parlato in questo periodo, cioè il modello Oyster (o anche Scribd) per la lettura dei libri e come risultato maturo due o tre riflessioni che vorrei condividere qui con i 25 lettori di questo blog. 

Tecnologie nella didattica

Argomento di cui si continua a parlare (e scrivere parecchio): è stato un tema dibattuto anche durante la Social Media Week di Milano qualche settimana fa e per conoscenza segnalo alcuni articoli comparsi recentemente che pur da prospettive differenti convergono verso quello che sembra ormai un dato appurato: prima il progetto, poi la tecnologia. Lo dice questo articolo di Dino Baldi su Doppiozero intitolato semplicemente Scuola digitale; lo conferma un articolo su “Education Next”, Schooling Rebooted che esordisce dicendo che gli educatori devono pensare come ingegneri (affermazione che può stupire, ma se leggete l’articolo ha senso, eccome). Infine c’è questo articolo su “Edutopia” che si chiede se le tecnologie didattiche valgano il cosiddetto hype. Di avviso opposto un post su “Insider Higer Ed” dal titolo eloquente: Why 21st Century Learning Should Be More Like the 19th Century dove si evidenzia il fatto che già John Dewey aveva individuato molti criteri non solo ancora attuali, ma soprattutto poco messi in pratica nonostante siano passati non pochi lustri (si sa, i tempi lunghi della scuola). 

Giornalismo digitale
L’articolo sopra menzionato è già abbastanza completo ed eloquente e se proprio avete voglia di leggere un vero e proprio saggio breve (in inglese) sull’argomento, rimando volentieri a questo bel pezzo su Guardian di qualche mese fa, intitotalo The rise of the reader, di cui vorrei sottolineare un passo: “Un giornale è un qualcosa di completo, di concluso in sé e sicuro di sè. Al contrario, le notizie nel digitale sono costantemente aggiornate, modificate, cambiate, rimosse: una continua conversazione e collaborazione. Viva, in evoluzione, illimitata, inesorabile. 

Molti credono che questo muoversi dal fisso al fluido non sia un qualcosa di veramente nuovo, bensì un ritorno alle modalità delle culture orali di ere remote. L’accademico danese Thomas Pettitt ha elaborato una teoria secondo la quale tutto il periodo dopo Gutenberg non sarebbe altro che una pausa, una sorta di interruzione del flusso consueto della comunicazione umana. Lui chiama questo periodo la “parentesi di Gutenbeg“. Il web, dice Pettitt, ci sta riportando allo stato pre-gutenberghiano, quando tutto era definito e raccontato dalla tradizione orale: un flusso effimero.” 

Il lettore nello streaming

Questa teoria mi è tornata in mente leggendo un aritcolo apparso recentemente su Book Business: Oyster Books: disrupting the disruptor, che prosegue un dibattito che ho inziato a seguire da poco, ma con crescente interesse. C’è infatti chi paragona il modello di Oyster a Netflix (come questo articolo: A Netflix for books?), chi invece, non basandosi sul modello – in effetti simile – quanto piuttosto sulla fruzione del contenuto libro rispetto alla musica, rigetta questo paragone (Why Oyster Isn’t the Netflix of Books). Infine, un recente articolo su Repubblica ha messo in evidenza i rischi che un sistema simile pone alla privacy degli utenti. 

Quello che invece mi sono chiesto io, dopo aver considerato queste tre tematiche, è: quanto il giornalismo da una parte e la didattca dall’altra potrebbero (ap)prendere dal modello di fruzione dei contenuti in streaming? Per ora è soltanto un’intuizione – probabilmente ache bislacca – senza che si configuri nella mente un vero e proprio modello non dico di business, quanto proprio strutturale. Però penso che ci possa essere un modo per legare streaming e notizie, perché se è vero come penso sia vero quanto dice Philip Di Salvo nel suo articolo su Wired, che “un giornale è un spazio declinato su tecnologie diverse: carta, web, social media, allora credo che la parte fluida di questa declinazione possa e debba un giorno assumere la forma di streaming, in modo da convogliare in un flusso il web e i social, blog e testate (e non parlo ovviamente di Twitter, ma qualcosa di più evoluto). 

Allo stesso modo, se fossi un editore scolastico penserei seriamente a come integrare i contenuti cartacei – ma anche quelli attualmente erogati su piattaforme di apprendimento) con un ambiente in cui sia privilegiata una modalità di fruzione diversa, meno legata alla proprietà e più all’utilizzo e alla forse troppo menzionata user experience, che però nella didattica viene spesso completamente trascurata. 

Vorrei sapere cosa ne pensate, e magari raccogliamo idee talmente buone da metter su una start up – altro nome che va tanto di moda.