Il mio Calvino

Il 15 ottobre di 90 anni fa nasceva Italo Calvino, uno dei maestri della narrativa italiana e autore da me particolarmente amato. Bella l’iniziativa di twitteratura #invisibili per celebrare l’anniversario attraverso un hashtag dedicato proprio al libro di Calvino che amo di più.

Ho letto per la prima volta Le città invisibili  durante un viaggio in Spagna e sin dalle prime pagine lette in aereo non ho potuto fare a meno di vedere le cose, le persone e soprattutto i luoghi attraverso la lente smerigliata del Marco Polo di Calvino e i suoi dialoghi-monologhi con Kublai Kan.
Forse è anche per questo che amo particolarmente Siviglia, perché è stata la prima delle città (in)visibili che ho vissuto in questo modo, interpretato e letteralmente letto cercando il più possibile di capire come l’avrebbe descritta al grande Kublai il veneziano di cui, incidentalmente, mi trovo a essere omonimo.

Ho trovato questo libro straordinario non solo per come è scritto e per le immagini che evoca, per le frasi che rimangono scolpite dentro – ma con una leggerezza che è tutta calviniana – ma anche perché ho trovato incredibile come tutte le città enumerate e descritte da Calvino siano impossibili e allo stesso tempo edificate su elementi del tutto reali, per un dettaglio, per uno stato d’animo, una particolare angolazione dello sguardo.

città invisibili“È l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma. Se ci passi fischiettando, a naso librato dietro al fischio, la conoscerai di sotto in su: davanzali, tende che sventolano, zampilli. Se ci cammini col mento sul petto […] i tuoi sguardi s’impiglieranno raso terra, nei rigagnoli, i tombini, le resche di pesce, la cartaccia.” Non è forse così per tutte le città in cui ci troviamo a passare, ad abitare, a visitare?

E che dire di Leonia, la cui “opulenza si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate per far posto alle nuove”?

O Adelma, “città dove si arriva morendo e in cui ognuno ritrova le persone che ha conosciuto”; o Ersilia, dove gli abitanti si spostano continuamente lasciando solo i fili delle relazioni intessute nel periodo in cui hanno vissuto nello stesso spazio.

Potrei andare avanti così, enumerandolte tutte, ognuna per una sua caratteristica particolare, per una sua qualità così vera che potremmo avvertirla ogni giorno nelle nostre città andando al lavoro.

È per questo che porto con me Le città invisibili ovunque vada, in ogni posto in cui ho vissuto (e non sono pochi, ormai); in ogni casa in cui ho abitato c’era, accanto al letto, la copia del libro gualcita, sottolineata, letta e riletta, consultata e piena di orecchie, come è di solito il libro che ci assomglia di più o a cui ci rivolgiamo nei momenti tristi come in quelli felici, per trovare risposte così come per cercare le domande giuste da formulare. 

Per omaggiare a mio modo Calvino e il suo libro, condivido qui un bel video in cui l’autore stesso spiega il perché dei nomi delle città e questo sito dove un’artista, Colleen Corradi Brannigan, ha realizzato delle opere d’arte ispirate alle 55 città che si rivelano tutt’altro che invisibili a chi ha occhi capaci di vederle.

P.S.: Finalmente, in ossequio al titolo di questo blog, parlo di libri anche passati – ma allo stesso tempo presenti e futuri, come solo i grandi libri possono essere.

gallizio editore: la lettura e la controrivoluzione delle scritture

foglietto

Qualche mese fa, nel post “leggere (e scrivere) tra le nuvole: perderemo davvero la letteratura?”  prendevo spunto da alcuni articoli che trattavano del ruolo della scrittura nell’era digitale.
Ormai si parla piuttosto di “scritture” e di un supporto che non esiste più o meglio è dilatato e diafano, di una scrittura ubiqua e non più lineare.
Per interpretare questo nuovo contesto ho interpellato Filippo Pretolani aka gallizio* (@gallizio), in quanto lo ritengo il miglior interlocutore sull’argomento. Ne è nata, più che un’intervista, un botta e risposta a colpi di mail, una chiacchierata su quello che potranno diventare le scritture nell’era digitale.

Iniziamo proprio da te e dal progetto Pleens: di che cosa si tratta? E soprattutto da cosa nasce, da quali esigenze o da quale punto di vista?

Nasce da un’idea antica come la letteratura: quella di associare ai luoghi il nostro vissuto, le emozioni, le storie. Lasciare un segno di noi. Ma dove? Lavorando sui social media io e mafe de baggis ci siamo resi conto di quanto le persone scrivano, che sia un sms o un lungo post su un blog, fino al lifestream quasi inconsapevole su twitter e facebook, che loro malgrado sono diventati i più grandi editori contemporanei. Pleens nasce dall’esigenza di provare a produrre consapevolmente queste scritture su una piattaforma creata per pubblicare scritture talmente dilaganti da non poter essere ospitate da un catalogo meno che sconfinato. Qui tornano i confini, il limite, le geografie: il mondo, un mappamondo iperconnesso, ci è sembrato l’unico spazio di pubblicazione possibile.

Una pubblicazione a costo zero…

Qui viene il punto: la vera novità, la discontinuità delle scritture native digitali non sta tanto (o non è solamente) nel fatto di essere duplicabili e distribuibili senza costi. No: è il fatto di essere connesse: il tempo di latenza tra scrittura e lettura tende ad accorciarsi fino a coincidere: il lifestream è live. È questo che ha cambiato l’efficacia della trasmissione della conoscenza chiusa a mezzo stampa. Il valore aggiunto della conoscenza è ora nell’interazione: scritture che generano altre scritture. Un grande software collettivo che scrive e riscrive il senso del mondo. Incessantemente, nel continuum delle scritture connesse.

Si riconfigura tutto un nuovo modo di intendere la scrittura, così come la lettura. In tutto questo la figura dell’autore come dovrebbe evolvere? (ma avrà ancora senso parlare di autore)?

L’autore entra in un’accelerazione fortissima della scrittura che fa quasi vacillare la sua identità. O se preferisci la rimette in gioco: che cos’è un autore al tempo delle scritture connesse? Certo: chi scrive romanzi continuerà a farlo e li offrirà al proprio pubblico. Ma il canone dell’autorialità si allarga. Siamo in una fase di forte sperimentazione: se i punti di riferimento consueti vengono meno, allo stesso tempo tutto converge verso nuovi linguaggi, nuovi format. Lo sai cosa manca? un nuovo genere letterario. Ma arriverà, come sono arrivati il cinema (dopo l’opera), il romanzo (dopo la rappresentazione teatrale), il fumetto (dopo la pittura figurativa).

O forse lo stesso concetto di “genere letterario” è uno dei punti di riferimento consueti che verranno meno?
Considerazioni personali a parte, a proposito di romanzi, viene da chiedersi che ne sarà del libro lineare e, soprattutto, conchiuso in sé; pensi che si parlerà sempre di più di social writing, oltre che di social reading? Mi riferisco per esempio a progetti come 20lin.es e simili.

Il libro, così come siamo abituati a conoscerlo, il buon caro vecchio libro, fatto di atomi e odore della carta, continuerà serenamente la propria vita. Sono gli editori che campano alle sue spalle a fare sempre più fatica. E i librai. Tutta la catena del valore legata alla distribuzione cartacea non è più redditizia. Si cercano nuovi modelli di business. Social reading e social writing sono un pezzo di questa sperimentazione. Ma la vera partita credo si giocherà sul self-publishing.

[sul genere letterario: non a caso l’ho accostato a nuovi linguaggi e nuovi format. Non sarà in continuità col romanzo, per intenderci. Il salto sarà paragonabile a quello che porta dal romanzo al cinema]

Ecco, il self-publishing: in uno scenario come quello da prefigurato non si autoafferma quasi come naturale conseguenza del contesto in cui siamo?

Si autoafferma come concetto e come prassi, ma per diventare letteratura deve trovare un format, un genere letterario, un linguaggio (lato autori) e un modello di business (lato producer/editori)

Quello che intendo dire – e dimmi se ho capito male – è: se parliamo di “un grande software collettivo che scrive e riscrive il senso del mondo”, forse l’autopubblicazione è già quella che si ha ora, un continuum di scritti distribuiti in diversi ambienti e con diverse finalità ma tutti già in un certo senso pubblicati perché pubblici.

In un certo senso sì. Io la considero la più grande operazione di scrittura dell’occidente: mai come adesso tante persone scrivono e img22rendono pubbliche le proprie scritture. Ma gli “editori” di questa operazione (le piattaforme, i producer) sono editori per caso: gli operatori telefonici, google, twitter, Facebook, YouTube, Pinterest etc. Però rendere pubblica la propria scrittura è diverso dall’autopubblicarsi. C’è la stessa differenza che c’è tra scrivere in pubblico e scrivere a un pubblico: un conto è scrivere ti amo su un muro, un altro è scriverlo in modo che qualcuno ti riconosca dignità di autore e sia disposto potenzialmente a pagare per la tua scrittura. Ma non è finita qui: la cosa si complica ulteriormente perché tutti questi elementi sono dinamici: la definizione di autore sta cambiando, così come quella di pubblico e di scrittura stessa. E anche gli equilibri e gli scambi, i flussi che li collegano. Bello no?

Se la forma libro (intesa come narrazione lineare) si sfalderà, sarà possibile in qualche modo ricomporre i frammenti del testo esteso e connesso? O forse non avrà nemmeno senso?

Non credo abbia senso deciderlo in astratto. Un giorno qualcuno ha composto il primo sonetto, qualcun altro ne ha tratto piacere e piano piano ne è scaturito un mondo. La forma libro lineare non si sfalderà: è solo un caso particolare della grande famiglia delle narrazioni non lineari. Che per la prima volta hanno la possibilità di esprimersi compiutamente!

Quasi un anno fa esponevi le tue 99 idee per l’editoria: nel frattempo è cambiato qualcosa? Ne aggiungeresti o ne toglieresti qualcuna?

Se non fosse cambiato qualcosa mi dovrei seriamente preoccupare! Se non altro del mio equilibrio mentale. Nell’ultimo anno ho lavorato soprattutto sugli spazi di pubblicazione e in particolare sul modo in cui lasciamo segni attraversando i luoghi.

[L’esperienza più forte in questo senso è stata senza dubbio la scoperta dell’arte di Tomàs Saraceno, in particolare di On Space Time Foam all’Hangar Bicocca. Una scoperta traumatica che ha innescato enormi ampliamenti di prospettiva.]

Pleens naturalmente è un primo passo in questa direzione, ma stiamo cercando di declinare le idee guida che lo ispirano su almeno due contesti concreti: la corsa e il cibo. Penso che siano due forme dell’abitare umano particolarmente significative dello spirito del nostro tempo e che tuttavia siano in fase di ridefinizione. Quando va riplasmandosi la cosa, va riplasmandosi inscindibilmente anche la parola: il modo in cui vengono descritte e raccontate ora queste esperienze culturali (il cibo col food blogging e la corsa con le applicazioni biometriche che tracciano le performance) sono datate e non possono bastare per veicolarne il senso: per questo motivo stiamo cercando nuovi linguaggi descrittivi e nuove modalità narrative. Anche qui l’idea è di sperimentare dei format per tentare di inventare un genere letterario. Speriamo bene…

*Chi è Filippo Pretolani (dal suo profilo Linkedin):

La complessa relazione tra economia, cultura e comunicazione è sempre stata al centro della mia esperienza professionale. Dopo dieci anni di corporate communication ho deciso di cambiare rotta per concentrarmi sulla disintermediazione e sul passaggio al digitale.

Come consulente e freelance, lavoro coi miei clienti su temi di Change Management, Social Media Strategies, approcci di second screen, gestione della presenza online per aziende grandi e medio-grandi.
Negli ultimi due anni sto lanciando due progetti editoriali specifici:

– gallizio editore, un open lab sulle scritture e sulla narrativa digitale
– Pleens, una startup che consiste in una piattaforma mobile che serve a connettere tra loro luoghi, emozioni ed esperienze.

Postilla o post scriptum su innovazione ed educazione

Ho letto oggi un articolo che avrei voluto inserire tra i link nel mio post precedente sulle tecnologie nella didattica, ma vale in effetti la pena dedicargli maggior spazio e una parziale traduzione, in quanto mi sembra molto illuminante.

Approfitto comunque di questa postilla al post precedente per menzionare articoli che ho colpevolmente omesso, come quello di Caterina Policaro intitolato “Cari prof, ecco come possiamo far crescere i nostri nativi digitali” in cui si fa il punto della situazione e si evidenziano bene sia le opportunità che le criticità (di sistema, di mentalità).  Sul suo blog, inoltre, Caterina affronta spesso e volentieri, da docente ed esperta di nuove tecnologie qual è, l’argomento e vale sempre la pena seguirla.

Ma vengo all’articolo che mi ha folgorato. Folgorato è forse esagerato, diciamo che ho ritrovato in questo pezzo molte argomentazioni in qualche modo familiari e che condivido al 200%, le quali riecheggiano inoltre una delle figure che ammiro di più in questo campo, quella di Sir Ken Robinson. 

L’articolo si intitola “Teaching innovation is about more than ipads in the classroom” (l’innovazione didattica è qualcosa di più che ipad in classe); ovviamente vi consiglio la versione originale, ma se non avete tempo e voglia di leggervi la lingua di Shakespeare, offro la mia umile e sintetica traduzione qui di seguito.

L’innovazione non è qualcosa che si installa, ma che cresce, e spesso lo fa ai margini.
Il problema è che gran parte dei curricula delle scuole di oggi sono chiaramente connessi a quelli del ventesimo secolo.
Le migliori scuole storicamente preparano i loro studenti per la realtâ sociale ed economica del loro tempo. Il nostro sistema educativo è stato strutturato ad ogni latitudine per andare incontro alle esigenze sociali ed economiche della rivoluzione industriale, una realtà quindi indubbiamente votata alla standardizzazione.
Il mondo sociale ed economico di oggi richiede invece persone con spirito critico che lavorino in modo collaborativo alla soluzione di problemi.
La tecnologia non fa che ampliare lo spettro dei modi in cui individui e gruppi possono accedere a, costruire e veicolare conoscenza.
L’educazione scolastica, per la sua maggior parte, non sta seguendo queste linee formative.

L’attuale sistema supporta l’innovazione?
L’organizzazione delle scuole – intesa come sistema, processo e valori – era stata deliberatamente pensata per raggiungere specifici obbiettivi.
Dipartimenti, lezioni di 50 minuti, campanelle, file di banchi, lezioni frontali, libri di testo, prove d’esame standardizzate, voti, sono tutti aspetti della struttura organizzativa della scuola che erano concepiti per formare studenti a immagine e somiglianza della società industriale. Un modello in cui regnavano sovrane la standardizzazione e la produzione di massa.
L’innovazione, accompagnata o meno dalla tecnologia, dalla valutazione o dall’istruzione, richiede tempo e spazio per la sperimentazione e un’alta tollerenza all’incertezza.

Innovazione dal margine
Il margine può essere costituito da una piccola percentuale dell’orario scolastico che venga dedicata ogni settimana alla sperimentazione (…); comunque sia, insegnanti e studenti devono essere supportati in questa esplorazione nei territori dell’incertezza. E qui sta il punto critico, perché incertezza e sperimentazione sono percepiti come una perdita di tempo all’interno del modello corrente, dal momento che incombe sempre il programma da rispettare.

Gli ambienti d’apprendimento del futuro sono in incubazione. È qui che risiede la sfida: gli ambienti d’apprendimento che non esistono non possono essere analizzati. Muoversi nel terreno dell’ignoto richiede spirito pioneristico. Helen Keller ci ricorda una verità non solo della nostra epoca, ma di sempre:
“La sicurezza è solo una superstizione. Non esiste in natura ed evitare il pericolo non è più sicuro, a lungo termine, di quanto non sia l’esporvisi. La vita o è un continuo osare, o è niente.”

Se poi avete ancora un po’ di tempo, vi consiglio senz’altro questo strepitoso intervento a TED di Sir Ken Robinson (con sottotitoli in italiano). Sono 20 minuti di puro godimento intellettuale.  Buona visione.

Apple e la didattica: un’infografica

Ho trovato in rete quest’infografica sul presunto impatto che avrà Apple sulla didattica e precipuamente nel futuro dei libri di testo. Ne avevo già parlato qualche tempo fa in un post in qualche modo accusato, non a torto, di aver tenuto conto solo di fonti negative e critiche nei confronti di Apple.

Ritorno sull’argomento con quest’infografica che penso sia abbastanza eloquente e la lascio ai vostri eventuali commenti e osservazioni.

amazon e i fantastici 4 kindle

Era nell’aria da un pezzo, la cometa aveva indicato la direzione e tutti già stavamo seguendo la sua scia. E poi il giorno è finalmente arrivato: Jeff Bezos ha sparato in un giorno solo quattro colpi che probabilmente riecheggieranno a lungo e lasceranno un segno indelebile nella ancor breve storia dei dispositivi di lettura digitale, e-ink e tablet.

Ma facciamo ordine: con un comunicato breve e sobrio quanto efficace, Jeff Bezos dà al mondo la notizia dell’uscita dei “fantastici 4” della Amazon: il nuovo Kindle a 79 dollari, i due Kindle Touch (il wi-fi a 99 $ e il 3G a 149) e, dulcis in fundo, il più atteso, quello che già viene ritenuto il game changer e il più accreditato sfidante dell’iPad, il Kindle Fire, il tablet Amazon all’incredibile (ma nemmeno troppo, vedremo dopo) prezzo di 199 $.

Una rapida carrellata di ciò che si è già scritto e detto in proposito? Volentieri: qui potete vedere in anteprima la pubblicità del Kindle Fire, mentre qui il Guardian fa una rapida disamina d’insieme dei fantastici 4. Infine, per una valutazione, anche tecnica, più approfondita (con tanto di video del lancio ufficiale dei device) è d’obbligo l’articolo di Mashable e l’analisi del Kindle Fire apparsa sul sito di 40K

Da parte mia, come possessore di Kindle 3 da esattamente un anno e 20 giorni posso fare solo alcune personalissime considerazioni:

1. Con il nuovo Kindle a 79 $ Amazon abbatte la barriera non solo dei 100 $, ma degli 80, per un device e-ink, e sicuramente sfonda una barriera creandone a sua volta un’altra, assai ardita quanto significativa.

2. Con i due Kindle Touch sfida a viso aperto e con la sicumera di chi sa che avrà la meglio, il Nook di Barnes & Nobles, gettando un’esca quasi irresistibile per tutti coloro che non avevano ancora  scelto l’e-reader della Amazon quasi solo per la mancanza di questa caratteristica (il touch, appunto).

3. Il Kindle Fire è sicuramente una mossa che darà fastidio all’iPad ma personalmente sarei cauto sotto questo punto di vista: il prezzo anche in questo caso fa sicuramente fragore, ma se si analizzano le caratterische del tablet Amazon si comprende un po’ di più il perché di tanta differenza con il giocattolone della Apple: schermo più piccolo (solo 7 pollici), touch a due dita e non a dieci, nessun dispositivo ottico (macchina fotografica o videocamera) nessun microfono e nessun media slot, funzionalità online solo tramite Wi-fi. Per di più, una batteria che non sembra superare le 8 ore. Così quei 199 dollari (comunque un prezzo molto molto competitivo) si spiegano un po’ di più, un po’ meno invece il gridare al probabile “ammazza i-Pad”.

Le vere novità, come sottolinea Mashable, sono l’affidarsi al Cloud attraverso il web browser Amazon Silk, nonché a mio parere l’entrata ufficiale nel businees del prestito digitale (di cui già aveva parlato in Guardian in un articolo da me citato qualche post fa).

Sicuramente tutti questi fattori ed elementi, nel loro insieme, portano alla formazione di un nuovo “lessico dell’editoria”, per dirla alla maniera di Giuseppe Granieri che ne parlava qualche giorno fa, accennando giustamente – e la mossa odierna di Amazon lo conferma una volta di più – che a Natale tutti gli e-reader probabilmente costeranno meno di 100 dollari.
E questa, in definitiva, è la chiave più efficace per aprire definitivamente le porte alla lettura digitale. Sotto questo punto di vista Amazon e i suoi Kindle rappresenteranno sicuramente un fattore di accelerazione determinante, se non decisivo.