CHAT GPT e la scuola: o la va o la spacca

Se ne parla tanto, sicuramente troppo, e anche ciò che sto scrivendo non sarà che un contributo al ronzio di fondo, ma a me serve per mettere un po’ in ordine le idee, e spero sia d’aiuto anche ad altri.

La prima cosa che ho pensato è stato: finalmente. Finalmente è arrivata una tecnologia veramente disruptive, di quelle cioè che tracciano un solco tra ciò che c’era prima e quello che troveremo poi, come è stato ai tempi per l’avvento di internet, dei dispositivi mobili poi, infine dei social network. Di quelle che, finalmente, renderanno presto desuete e datate molte cose scritte sulla didattica e le tecnologie negli ultimi 20 anni (compreso, ahimé, il mio saggio, che aveva saputo rimanere attuale per ben 8 anni, grazie alla stagnazione delle pratiche e del dibattito).

L’intero impianto metodologico-didattico è riuscito a resistere in maniera inalterata, o quasi, a tutte le tecnologie elencate poc’anzi, rendendo l’integrazione di — o almeno la riflessione su — tecnologie e scuola una prerogativa solo di poche eccellenze, di docenti tanto ben disposti quanto minoritari, di rari dirigenti scolastici lungimiranti. Sempre eccezione, mai sistema. Fare sistema, si sa, è molto impegnativo, complesso, richiede energie, riflessione e tempo. Molto più facile buttarla in caciara, come si dice a Roma, cioè polarizzare il dibattito invece che affrontarlo; più facile propagare la logica dell’aut aut (o solo digitale o solo analogico) e alimentare l’antitesi tecnologia / fattore umano, invece che trovare una sintesi tra le potenzialità e i limiti dell’una e dell’altro per individuare percorsi nuovi, adatti a esigenze e a contesti differenti, perché le esigenze e i contesti non sono mai identici, sebbene le lezioni, gli orari, i libri di testo, i percorsi di studio siano ancora imperniati sulla nefasta logica one size fits all e su battaglie di totale retroguardia, come se ciò che è stato insegnato e come è stato insegnato dovesse essere replicato di generazione in generazione, non importa se fuori cambiano le regole, i presupposti, le modalità di accesso alle informazioni, se aumentano i rischi di non saper utilizzare al meglio questi nuovi strumenti e di non sapere come sfruttare al meglio queste modalità.

Ora, finalmente — lo dico e lo ripeto — è entrato in scena l’elemento che, più di ogni altro, imporrà veramente le nuove regole del gioco. Irrimediabilmente. E non basterà vietarne puerilmente l’uso in classe, come si fa (con scarso successo) con gli smartphone. L’Intelligenza Artificiale sta arrivando, è già qui, e dilagherà ovunque. Quella che vediamo ora, Chat GPT, è solo l’ombra di ciò sta per incombere, è il primo vagito di una creatura che ancora non sappiamo come e in che misura e in che tempi sarà in grado di crescere, svilupparsi e prendere il controllo sulle nostre vite. Già lo sta facendo, per il momento come i neonati sono capaci di rivoluzionare la nostra esistenza al loro arrivo. Ma presto, tra qualche anno, rideremo di quanto fosse primitivo quello che ora ci sembra un miracolo tecnologico.

Sono in tanti a essere terrorizzati dalla creatura, ma tra i più impauribili e impauriti ci sono ovviamente gli insegnanti: “Gli studenti copieranno ancora di più”. Chat GPT è il compagno/la compagna secchione/a che ti passa il compito sotto il banco; è la persona a cui affidare la stesura della tesi, ma senza pagare un euro. Chat GPT è l’incubo di ogni insegnante che abbia ancora in mente quel tipo di scuola di cui si parlava qualche paragrafo sopra. Di qui il titolo piuttosto esplicito che ho voluto dare a questa mia riflessione: sarà finalmente l’Intelligenza Artificiale della macchina in grado di fare ciò che per decenni l’indolenza naturale dell’essere umano ha sempre temuto e rimandato, paventato e procrastinato? (detto tra parentesi, appunto: non è un caso che Don Abbondio sia sempre così presente nelle aule scolastiche)

Per ora Chat GPT, pur nella sua forma primordiale, sta dicendo molto chiaramente alcune cose: se ci accontentiamo di un banale lavoro di sintesi, di aggregazione di dati anche solo superficialmente ragionata, di elencazione di elementi, di elaborazioni minimamente corrette per compiti convenzionali, da qui in poi saremo facilmente ingannati. Se insisteremo a privilegiare da una parte la sacralità della scrittura, dall’altra il ragionamento lineare, omologato e omologante, saremo facilmente ingannati come insegnanti e inganneremo sempre più facilmente noi stessi come studenti. Se continueremo con la lezione tradizionale, unidirezionale e nozionistica, inganneremo in modo infantile noi stessi come insegnanti e maniera esiziale i nostri studenti. Ma è giunto il tempo che la scuola offra — e chieda — di più.

Welcome to the machine

La Macchina è più di noi: è più rapida nell’esecuzione, in grado di contenere più informazioni, più dati, di assemblarli e rielaborarli in maniera straordinariamente efficace. Ma la Macchina siamo noi. Siamo noi che impostiamo i suoi dati e quindi definiamo le sue risposte, che escludiamo ed elaboriamo le informazioni in input e quindi determiniamo l’output. La Macchina cambierà il modo in cui lavoreremo, creeremo, studieremo. Deve anche, di conseguenza, cambiare il modo in cui insegneremo? Io penso di sì. Saremo all’altezza della Macchina, o meglio, della Macchina e di noi stessi?

L’uso dei dispositivi mobili in classe: questione di atomi, non di bit

A proposito del dibattito sullo smartphone in classe

la mutazione nella connessione

Nel dibattito comune la “normalità” del digitale viene vissuta male, in particolare quando se ne parla associandolo al mondo dell’educazione.

Riflettere sui dispositivi (devices) e sulle pratiche connesse non significa ritenere che siano questi gli elementi centrali dell’innovazione scolastica ma significa riconoscere che la forma dell’esperienza e dei saperi assume una natura diversa all’interno di universi mediali differenti e oggi questi strumenti sono parte delle vite (non solo) delle nostre figlie e dei nostri figli.

L’uso dei dispositivi in classe rappresenta quindi una sfida e un’opportunità culturale per la scuola. È a partire da questa consapevolezza che abbiamo lavorato nel Gruppo di lavoro per la valutazione dell’uso dei device digitali personali in classe, costituito con decreto della Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli.

Il lavoro svolto è anche una presa d’atto, quella della diffusione di dispositivi e connessione differente e disomogenea ma comunque consistente e quella dell’esistenza di…

View original post 267 altre parole

Il culto del libro

All'ombra di una quercia

culto del libro

Se c’è una cosa che non ho mai sopportato è la distinzione tra bene e male. Sentire questi due sostantivi all’interno di una qualsiasi frase mi provoca un forte prurito al sarcasmo e il mio medico di fiducia (nel senso che finché non capirò quello che scrive dovrò fidarmi di lui) mi ha prescritto come cura 30 secondi di silenzio da masticare subito dopo il contatto con i due allergeni.
Se ve lo state chiedendo, funziona male. Salva la situazione, ma trasforma il prurito al sarcasmo in un bruciore di stomaco. Vita tua, mors mea. Mi piace pensare di essere un tipo altruista.
Il bisogno psicotico di far rientrare ogni aspetto della vita umana nell’una o nell’altra categoria, scientificamente conosciuto come sindrome da Barbara D’Urso (figura medievale famosa per alcuni manoscritti apologetici riguardanti un venditore di concime, tale Auditel da Mediaset), può applicarsi a molti contesti della vita, primo fra tutti: l’ambito religioso.

View original post 828 altre parole

Come sta l’ebook? Bene, male, dipende

In questo periodo si parla molto dello stato di salute dell’ebook, soprattutto in U.S.A. e Gran Bretagna, i due mercati principali. Perché? Perché dopo anni di ascesa quasi esponenziale, il 2014 ha visto questa spinta affievolirsi in maniera sensibile. Ma attenzione: da una parte i dati forniti non tengono conto di un player come Amazon (che si sa, detiene la fetta più grande del mercato di libri digitali), dall’altra in Italia, almeno stando ai dati AIE diffusi in questi giorni alla Buchmesse di Francoforte, le cose per l’ebook non sembrano andare così male, anzi: l’ebook è uno dei (pochi) settori che fa registrare il segno più, raggiungendo i dati di vendita dei libri cartacei della grande distribuzione. Interessante, inoltre, il dato che evidenzia un rapporto sempre più stretto tra evento e vendita di libri, che sottolinea l’importanza crescente dei festival e degli incontri con gli autori. Qui sembra che libro e musica, travolti dal digitale, seguano la stessa traiettoria: più che il negozio, conta ora il concerto, il reading, la presenza fisica di autore e pubblico insieme nello stesso spazio.

Un articolo di qualche mese fa suThe Bookseller confrontava l’andamento del mercato librario in Gran Bretagna e negli Stati Uniti: le vendite di ebook rappresentano il 17% del valore totale, ma per i romanzi la percentuale è del 37%, chiaro segnale che “i lettori continueranno ancora a richiedere un mix flessibile di cartaceo e digitale, senza che uno dei due pattern predominerà”.

L’articolo poi fa varie riflessioni sulle possibili cause del fenomeno e analizza più in dettaglio alcuni segmenti. Consiglio a chi fosse realmente interessato di leggersi integralmente il pezzo, di cui sintetizzo rapidamente alcuni dati:

  • è difficile individuare una vera crescita del digitale nei prodotti editoriali per giovanissimi lettori: in sostanza si rileva ancora l’importanza del libro cartaceo nelle vite dei bambini, nonostante il sempre costante uso di internet e della tecnologia.
  • Se si fanno i conti in tasca ai Big Five — Penguin Random House, Hachette, HarperCollins, Pan Macmillan — l’aumento delle vendite di ebook sale a +15.3% rispetto al 2013: ma i ricavi relativi crescono solo del 6.8%. Segno che il prezzo medio diminuisce (o gli acquirenti comprano più ebook a basso prezzo) e quindi i margini per l’editore si restringono. “In other words, growth comes at a cost.”
  • Il mercato scolastico digitale deve ancora svilupparsi, ma quello accademico è molto più vitale.

Cosa diventerà l’ebook?

Tuttavia, sostiene un altro articolo su Digitalbookworld, se si pensa che il digitale sia in fase di regressione, ci si sbaglia di grosso. E spiega perché.

Steven Sinofsky’s Four Stages of Disruption

Nel farlo si affida a una teoria di Steven Sinofsky, ex presidente Microsoft, che ha individuato 4 fasi nel processo di disruption (chiamiamola “discontinuità”) che reca con sé la tecnologia:

FASE 1 — Disruption of Incumbent: l’innovazione è un bel giocattolo, ma non è vista come fondamentale per il proprio business. Nell’editoria digitale, dice l’articolo, si può parlare degli anni 2007–2010.

FASE 2 — Rapid Linear Evolution: l’innovazione prende una nuova traiettoria e viene percepita come tale, ma è ancora solo tollerata, sebbene si accetti di incorporarla gradualmente nel proprio processo di produzione. Per l’editoria digitale si parla degli anni 2010–13.

FASE 3 — Appealing Convergence: la discontinuità è avvenuta, ma il mercato si stabilizza. Si verifica una forma di convivenza mista digitale-analogico. Siamo per l’editoria in questo attuale periodo, il 2015.

FASE 4 — Complete re-imagination: è l’ultimo stadio della teoria di Sinofsky, quando cioè una categoria o una tecnologia viene rivista, reinterpretata e reinventata dalle fondamenta. Per l’editoria questa fase deve ancora iniziare, e allo stato delle cose è difficile dire quando ciò accadrà.

In un post di un anno fa avevo già parlato di mimesi ancora troppo fedele del digitale rispetto al cartaceo e di “traduzione troppo letterale” che l’ebook opera ancora, faticando a trovare una sua sua via per dare vita a nuove modalità di elaborazione e fruizione dei contenuti. Anche nel settore dell’editoria scolastica si avverte molto questa fase di transizione, quasi che l’ebook sia solo una crisalide da cui si attende con trepidazione che ne esca una meravigliosa farfalla che stupirà tutti per la sua bellezza. Non posso però concludere senza citare due riflessioni dell’articolo Publishing’s Digital Disruption Hasn’t Even Started fin qui sintetizzato e, in parte, tradotto:

Pensate a come altre industrie hanno vissuto questa fase di disruption: Uber, la più grande compagnia di taxi, non possiede nemmeno un veicolo; Facebook, il più popolare proprietario mediatico, non possiede contenuti; Alibaba, il venditore più valutato, non ha un magazzino. Airbnb, il più diffuso sistema di alloggi, non possiede nemmeno un’agenzia immobiliare.

Tutto ciò mi ricorda in qualche modo una frase del mio amico Mauro Sandrini nel suo Elogio degli ebook: il fatto che i giovani non comprino più cd non significa che non ascoltano più musica. Anzi, ne ascoltano come e più di prima. Solo che cambiano le modalità in cui viene fruita e diffusa.

Infine, l’ultimo pensiero va agli editori: Ironicamente, uno dei talloni d’Achille degli editori — la loro presunta impenetrabilità e inadeguatezza nei confronti dell’innovazione — potrebbe nei fatti aiutarli ad attutire l’impatto delladisruption. Comunque, non la fermerà.

Leggere (e scrivere) non solo libri

Parlo anche per me, perché questo è un periodo di scarse letture a lunga gittata, diciamo così, ovvero di libri, o ebook o comunque letture di testi di una certa lunghezza, ampiezza, area e perimetro. Leggo molto, ma soprattutto articoli, un sacco di articoli trovati soprattutto nel web, ma anche riviste che acquisto o su cui opero uno scanning di qualche minuto in biblioteca.

treScrivere, idem: o meglio, il mio libercolo l’ho scritto anch’io, ma ho avuto anche l’idea di ampliarlo, approfondirlo e integrarlo (la carta si sa, si logora presto, tanto più i contenuti di saggi sull’oggi) in uno spazio digitale su Medium, uno di quei luoghi che esalta la lettura granulare, non strutturata in capitoli ma a monadi che si irradiano in link, in collegamenti, suggestioni, riferimenti.

C’è chi la chiama superficialità e i giornali mainstream ci vanno a nozze (vedi ameni articoli come questo sull’ebook che “ci rende superficiali”), quando invece si tratta di una diversa declinazione della lettura (e della scrittura) che merita approfondimenti e riflessioni un po’ più complesse (ci abbiamo provato in questo ebook collettivo quanto mai attuale: Letture, contenuti e granularità).

Fatto sta che lettura e scrittura sono ormai atti che non si esauriscono in una sessione, in una fase con un inizio e una fine precisi, ma si dilatano, si articolano in varie ramificazioni, devono aggiornarsi per restare vivi e abitare un mondo sempre più costituito di atomi e bit, un mondo il cui il pensiero è, se non fluido,sicuramente molto meno sedentario di prima.

C’è chi dice anche che la lettura e la scrittura si fanno sempre più social, anche se su questo ho ancora le mie perplessità, ma è anche vero che con progetti come Bookliners, Bookolico e, ultima arrivata, Lea di Laterza, si sta affermando una modalità di lettura condivisa, lettura che però rischia di frammentarsi ulteriormente – ed è qui la mia perplessità maggiore (ma ne parlerò in un altro post, magari intanto fatemi sapere che ne pensate voi).

Del resto, gruppi di lettura on line e forme embrionali di social reading sono anobii e Goodreads, i due maggiori social network dedicati alla lettura.

E concludo ritornando a me, e quindi anche a te, visto il rapporto sempre più stretto che c’è tra autore e lettore e dove i confini tra l’uno e l’altro sono sempre meno definiti. Concludo con l’invito ovviamente a leggere il mio saggio (se ti interessa l’argomento), ormai disponibile in ebook e cartaceo; invito a visitare lo spazio su Medium dove scrittura e lettura si estendono per approfondire, aggiornare e integrare i contenuti del libro; invito a commentare il tutto su anobii e/o Goodreads, se ne hai voglia. Invito, in definitiva, a non limitare la lettura a un gesto isolato, concluso in se stesso, ma a dargli un respiro più ampio, un volume, inserendolo in un ecosistema in cui coabitano più prospettive e più interpretazioni di una stessa narrazione.

Di che cosa parliamo quando parliamo di #scuolaedigitale

Il 4 maggio parteciperò a un incontro su scuola e digitale a Pistoia e vorrei anticipare qui alcuni spunti di Scuola e digitalediscussione che mi piacerebbe sviluppare con chi sarà presente alla biblioteca San Giorgio, che ci ospiterà.
La prima riflessione è sul senso da dare all’espressione “scuola e digitale“. Sotto questo punto di vista noto che negli ultimi tempi si sta passando da una fase emotiva a una più riflessiva, in cui le posizioni tendono ad attenuarsi e la contrapposizione tra integrati e apocalittici si fa meno netta e più articolata. Uno degli effetti più benefici di questo processo è il fatto di considerare il digitale non solo e non tanto come strumento, quanto come un insieme di logiche, dinamiche e spazi di interazione e comunicazione che hanno le loro regole e il loro funzionamento, primi tra tutti i concetti di collaborazione e condivisione nella ricerca e nella costruzione del sapere (considerati tra gli skills più importanti da molte aziende negli USA, stando ad un sondaggio).
Ne ho parlato più diffusamente in un’intervista apparsa recentemetne su La Vita Scolastica, in cui sottolineo come questo tipo di logica reticolare e non lineare può rimettere in circolo teorie e metodologie già presenti nel mondo della didattica: penso alla Montessori, a Dewey, al costruttivismo.
Ho trovato conferma di queste mie riflessioni nelle discussioni tra insegnanti nei gruppi facebook dedicati alla cosiddetta didattica 2.0 e altrove (vedi questo articolo su La Stampa). Voi cosa ne pensate? Sicuramente sarà un argomento interessante di cui parlare negli incontri pubblici a cui sarò presente.
Seconda riflessione, collegata alla precedente: conoscete Coderdojo? Si tratta di un’iniziativa nata in Irlanda qualche anno fa e approdata nel 2012 in Italia che in poco tempo, e sorprendentemente, è diventato il secondo Paese europeo più attivo nell’insegnamento del coding agli studenti attraverso una rete di volontari presenti anche nelle scuole, su richiesta.
Se ne volete sapere di più, potete leggere qui un articolo piuttosto approfondito al riguardo, da cui voglio estrapolare alcuni concetti: perché insegnare ai ragazzi (si parla anche di bambini) i linguaggi informatici per sviluppare giochi, app o siti web? Tre sono i fattori chiave che ho individuato nell’articolo:

– rendere i ragazzi utilizzatori attivi dei nuovi dispositivi digitali, per farli diventare strumenti e soluzioni ai propri bisogni;
– apprendere una mentalità, un nuovo modo di rapportarsi con i computer e gli strumenti tecnologici;
– capire che la tecnologia può essere utilizzata in maniera intelligente e non soltanto passiva.

Si tratta, in sostanza, da una parte di creare una didattica anche laboratoriale, molto importante perché in questo modo si impara facendo e collaborando, scambiandosi idee e condividendo le proprie conoscenze per realizzare un progetto concreto; dall’altra, si attua quello che ritengo un requisito fondamentale, cioè il far passare gli studenti da una confidenza a una consapevolezza tecnologica, che è cosa ben diversa, ma quanto mai necessaria per dominare la tecnologia e non restarne soggiogati .
Se siete interessati, c’è anche un video di Repubblica in cui si parla di CoderDojo in chiave didattica e si menziona, guarda caso, proprio la Montessori e il suo metodo.

Infine, ultimo spunto che metto sul tavolo, se lo riterrete degno di approfondimento: in un recente articolo su StartupItalia! si parla di Oilproject, la piattaforma online di apprendimento che ha superato il milione di utenti mensili. La particolarità di Oilproject è che chiunque può insegnare e si basa su un cosiddetto modello p2p (cioè tra pari), ma può contare anche su una community di esperti che offre videolezioni complete di test e prove online. Si interagisce come su un social, ma tutto in funzione dell’apprendimento.
Quello che mi piacerebbe sapere da voi è se e fino a che punto pensate che possa essere un modello applicabile al contesto scolastico e in che modo.
Può essere compatibile con il famoso comma 2-bis della ministra Carrozza (e confermato anche dall’attuale ministra Giannini) per cui “gli istituti scolastici possono creare il materiale didattico digitale per specifiche discipline da utilizzare come libri di testo”?

Se non potete venire a Pistoia, commentate pure qui: il blog è un luogo di discussione, non di monologhi.

Tecnologie e didattica, editoria scolastica e Buona scuola: due ebook a confronto

Il primo a dirlo è stato eFFe su Medium; a marzo sono usciti quasi in contemporanea due ebook sulla scuola che “possono e devono parlarsi” perché hanno molte affinità e possono interagire ottimamente per fornire un quadro più completo a approfondito sul tema scuola, tecnologie, didattica ed editoria.teste-e-colli_cover-e1426062008435

I due ebook in questione sono il mio Il digitale e la scuola italiana e Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola edito da Il lavoro culturale e curato da Marco Ambra.

Ne ho parlato già in un post di marzo, poi effettivamente io e Marco Ambra abbiamo interagito e ne è nata un’intervista incrociata: qui riporto le risposte di Marco alle mie domande e nel sito de il lavoro culturale trovate le sue tre domande alle quali ho risposto più che volentieri.

Iniziamo dalla cosiddetta “buona scuola”: quali sono secondo te le priorità di intervento nel sistema scolastico, al di là degli hashtag renziani e delle parole d’ordine tra marketing e pseudo-innovazione?

Iniziamo dalle priorità. Io credo che il sistema istruzione viva oggi una crisi del proprio design, della propria architettura e della propria funzione. Le profonde trasformazioni che hanno interessato le società globalizzate nell’ultimo trentennio mettono in discussione, in maniera sempre più massiccia, la mediazione delle informazioni operata dalla scuola pubblica nell’epoca della società di massa. E per mediazione intendo tanto la loro veicolazione, dagli insegnanti ai discenti, quanto la loro trasposizione in una forma espressiva “media”, standardizzata, accessibile. Il primo senso di “mediazione” è in crisi anche per una serie di motivi che appartengono alle scelte politiche di vessazione economica dell’istruzione pubblica (insegnanti retribuiti al di sotto della media europea, che operano in strutture inadeguate hanno poche motivazioni a studiare, fare ricerca didattica ed educativa, e conseguentemente tendono ad offrire pochi stimoli ai loro studenti). Parafrasando Peter Sloterdijk potremmo dire che il secondo senso di “mediazione” riguarda invece la crisi di una complessa strategia di divulgazione dei saperi, nazionalizzazione delle masse e formazione delle classi dirigenti che nasce e si impone con l’Illuminismo e culmina nella definizione del design scolastico “classico” fra XIX e XX secolo. È l’idea dell’insegnante, in cattedra, come detentore e divulgatore di un sistema dei saperi consolidato. Questo secondo senso della parola “mediazione” è oggi in crisi, dal mio punto di vista, in virtù della detronizzazione dell’insegnate dal monopolio dei saperi operato dalla Rete (e della detronizzazione di idealismo e neoidealismo dal vertice della cultura filosofica continentale: non esistono totalità sistematiche del sapere ma informazioni che fanno o non fanno un programma di ricerca all’interno di un paradigma).

Considerata questa crisi della funzione mediatrice della scuola bisognerebbe cominciare a riflettere  su come l’istituzione scolastica si ponga oggi rispetto alla società all’interno della quale opera. Isola resistente alle innovazioni? Luogo in cui preservare lo spazio e il tempo per coltivare lo sviluppo dello spirito critico? Tassello essenziale nella costruzione della democrazia? Anticamera del mondo del lavoro? Spazio di scoperta ed esercizio della propria autonomia? Ecco, io credo che la priorità sia affrontare questo tipo di dibattito, smascherando e demistificando le posizioni ideologiche che si presentano invece come descrizioni di stati di cose. Decostruire e rispondere alle narrazioni tossiche. Faccio un esempio: l’idea che la scuola debba formare dei lavoratori specializzati si presenta sostenuta da argomentazioni ammantate di buon senso (non ci sono più gli operai specializzati nel settore X, quindi la scuola del territorio deve formare gli operai del settore X) ma non considera la dinamica propria dell’apprendimento che non è fatta di applicazioni, prestazioni ed esecuzioni per imitazione di compiti gradualmente sempre più complessi. È fatta invece di tempi e spazi che la ratio produttiva contemporanea considererebbe “inutili”, perché non quantificabili e standardizzazbili nei risultati. Anche l’uso delle tecnologie digitali nella didattica dovrebbe affrontare questo tipo di dibattito critico. Perché faccio usare il tablet ai miei studenti? Dov’è la finalità educativa nell’uso del dispositivo digitale X in classe? Senza c’è solo acquiescenza della scuola alla società e ai rapporti di forza che essa esprime.

Il tema dell’editoria scolastica mi sta particolarmente a cuore e vorrei sapere il tuo punto di vista sul ruolo che potrebbero e/o dovrebbero avere editori in questa fase.

In questa fase la stella polare delle case editrici dovrebbe essere quella della massima sperimentazione possibile. Mi riferisco soprattutto alla questione del “manuale digitale”: il compito delle case editrici che si occupano di scuola è quello di svolgere una funzione culturale che impedisca la codificazione e cristallizzazione di “manuali standard”, corredati da presentazioni in .ppt utilizzabili in tutte le classi dello stesso ordine di scuola attraverso la tecnica del copia e incolla. Insomma, le case editrici dovrebbero stimolare un ruolo attivo degli insegnanti nella sperimentazione e costruzione di percorsi manualistici che utilizzano le potenzialità del digitale. Il rischio è quello che Roberto Casati (in Teste e colli, p. 105) definisce “il problema dell’addomesticazione preventiva”:  in un paesaggio evolutivo, quando l’individuo di una specie si trova su uno dei massimi locali, per esempio un volatile che raggiunge il massimo locale del pollo, poi non può˜ più tornare indietro, non può più accedere a tutte le potenzialità evolutive, a tutti i potenziali massimi locali cui si affacciava il volatile generico. Hai addomesticato il pollo e non puoi più tornare indietro e risalire a un uccello più performante. Le case editrici devono evitare la selezione del “manuale pollo”, del manuale in digitale standard che rende superfluo ritornare ai possibili manuali alternativi, più performativi. Un obbiettivo di questo tipo può essere raggiunto solo se i saperi tecnico-professionali di chi costruisce i manuali incontra la professione insegnante: attraverso corsi di aggiornamento, momenti di formazione reciproca, sperimentazione in classe. Altrimenti a determinare le scelte sarà la razionalità del mercato, del prodotto più vendibile (non di quello più performante nel processo educativo).

Chiudo con una domanda tanto secca e volutamente provocatoria, quanto, ahimè, diffusa: tecnologie e didattica. Sì, no, perché?

La domanda è viziata da un frame che impone una soluzione binaria, sì o no, integrati o apocalittici. Credo che la questione sia molto più complessa di una libera scelta: le tecnologie digitali sono già nelle nostre scuole, con gli smartphone e i tablet dei ragazzi, le LIM, i pc in classe, il registro elettronico, il laptop del prof, ecc… Il punto è quale tipo di relazione stabiliamo con queste tecnologie. Non possiamo pensare che i dispositivi digitali possano compensare, sostituire, surrogare i metodi per l’acquisizione degli apprendimenti di base: come dice Franco Lorenzoni alla base del gesto grafico propedeutico alla scrittura c’è l’esercizio di un tipo di manualità che prescinde  e si realizza fuori dall’ecosistema digitale. Un discorso diverso andrebbe fatto per i bambini e le bambine con DSA quali la dislessia o la disortografia. Perché in quel caso l’uso, anche nei primi anni di scuola, dei dispositivi digitali potrebbe aiutarli a superare determinati problemi con largo anticipo. Ma non possiamo neanche pensare che si possa prescindere del tutto dall’ecosistema digitale: perché ci viviamo dentro, perché ha delle potenzialità utili anche agli apprendimenti. Penso a come l’uso dei social media e della multimedialità possa rinverdire, specie nella scuola secondaria di secondo grado, la didattica di discipline “tradizionali” e poco aperte in passato alla sperimentazione. Dall’altra parte però bisogna anche guardare alla scuola coma al luogo in cui si fa qualcosa di diverso rispetto alla società (altrimenti la scuola non avrebbe più una ragione sufficiente per esistere), un luogo in cui certi spazi e certi tempi siano preservati dal “rumore di fondo” della merce, dalla fruizione bulìmica di immagini della Rete. Perché solo nel tempo morto, nella distrazione della lettura, nei diversi tempi di soluzione di un’equazione, nell’ascolto e nell’attenzione condivisa, esiste l’apprendimento. Quindi il problema che abbiamo oggi non è tanto quello di introdurre o meno la tecnologia nella didattica, ma di avere delle regole condivise e democratiche nell’uso del mezzo tecnologico. Mezzo e non fine.

Per un’editoria digitale accessibile e universale

di Salvatore Nascarella (@nascpublish)

Un tema importante, soprattutto nell’editoria digitale, è la questione legata all’accessibilità ai contenuti. L’accessibilità riguarda l’accesso a quel che decidiamo di leggere non solo in termini di raggiungimento dei contenuti su una determinata piattaforma, attraverso un dispositivo elettronico particolare o in cloud, ma anche, e soprattutto, la fruibilità degli stessi da parte di qualsiasi potenziale lettore, in diverse condizioni, in diversi contesti.
Ho fatto alcune domande sull’argomento a Livio Mondini, che dell’accessibilità ha fatto una scelta di progetto e di vita ed è l’unico italiano a far parte del gruppo di lavoro W3C Digital Publishing Activity.

1.  Se parliamo di ebook accessibile a chi dobbiamo pensare?

Il termine “accessibilità”, quando è relativo a pagine web o documenti elettronici, fa diretto riferimento a uno dei principi fondamentali del web:

The power of the Web is in its universality.
Access by everyone regardless of disability is an essential aspect“.

(Tim Berners-Lee, W3C Director and inventor of the World Wide Web, 2006)

Per realizzare concretamente questa visione, il W3C ha sviluppato un’iniziativa chiamata WAI (Web Accessibility Initiative) e redatto una serie di documenti che delineano tecniche e soluzioni da adottare per rendere le pagine accessibili. È però un errore pensare che l’accessibilità sia qualcosa riservata ai disabili, come se fosse “qualcosa in più”. Una pagina accessibile sarà di migliore qualità e fruibilità per qualsiasi utente. Nella sua definizione, Berners Lee pronuncia esplicitamente un’altra parola importante: universalità.
Questa parola può essere considerata quasi sinonimo di accessibilità. Di conseguenza, se parliamo di ebook accessibili dovremmo pensare a tutti.

2. È complicato rendere accessibile un contenuto?

La risposta breve è no, se si parte con il piede giusto e con gli obbiettivi finali ben chiari. Tutti i programmi che normalmente utilizziamo per produrre contenuti consentono di realizzare documenti secondo i riferimenti delineati dalle WCAG 2.0, lo standard del W3C che definisce chiaramente quando un contenuto può essere dichiarato accessibile e quando no. Può essere invece un massacro in termini di editing tentare di rendere accessibile a posteriori un documento che non sia nato così.
Le attuali WCAG 2.0 (Web Content Accessibility Guidelines) fin dal 2008 forniscono agli sviluppatori linee guida, documenti tecnici, casi d’uso e soluzioni per le tecnologie più diffuse (HTML, CSS, SMIL, PDF, WAI-ARIA, ecc). Basta leggerle e applicarle.

3. Quali problemi vedi per un’editoria digitale accessibile?

Fondamentalmente il problema vero risiede nella mancata conoscenza delle possibilità che le tecnologie offrono per realizzare documenti universali. La maggior parte delle persone che impagina libri elettronici e/o produce pagine Web semplicemente ignora l’esistenza di queste tecniche di produzione.

4. A tuo parere, gli editori italiani che valore danno all’accessibilità dei propri contenuti?

Poco o nulla, a parte gli editori di supporti speciali come libri a testo ingrandito o in Braille. Per ciò che è di mia conoscenza, in genere gli editori conoscono l’argomento, ma non sanno come procedere. Direi che siamo in uno stato di intuizione, invece che di realizzazione pratica.
Recentemente un’iniziativa completamente finanziata dallo Stato, il progetto LIA (Libri Italiani Accessibili) ha anche peggiorato la situazione, poiché con la pretesa di “insegnare” agli editori come realizzare libri elettronici accessibili ha propagato una conoscenza del tema peggiorativa della situazione di ignoranza generalizzata. È stata finanziata la produzione di un elevato numero di titoli in formato epub (standard creato dall’International Digital Publishing Forum) e inventato un proprio sistema di validazione, del tutto arbitrario e non documentato, rappresentato dal “bollino LIA”, che in teoria dovrebbe certificare l’accessibilità di quei libri elettronici. Ci sono diverse profonde contraddizioni e arroganza in queste azioni, che vanno nel senso opposto dell’accessibilità: la prima è inventarsi uno standard, senza riferirsi a linee guida internazionali già esistenti, documentate e utilizzate a livello mondiale, o avendo la competenza per farlo (AIE non è certamente famosa per le sue battaglie per l’accessibilità). Non commento oltre, credo sia chiaro che cos’è successo.

Secondo, i libri di LIA non sono universali, ma dedicati esclusivamente a due precise tipologie di disabilità: ciechi e ipovedenti. E tutti gli altri? Boh, nessuno li prende in considerazione. Ovviamente dei libri del genere non possono essere considerati accessibili e universali.
Dal mio punto di vista di italiano appassionato di accessibilità ed editoria elettronica, una vera figura di palta a livello mondiale e uno spreco ulteriore di denaro pubblico.
Se ci fossero dei dubbi sulla valenza del progetto, invito a leggere le analisi di Alfio Desogus, presidente della Biblioteca multimediale di Sardegna, e Francesco Cresci.

  1. Hai notato differenze di approccio ai contenuti accessibili tra gli editori “puramente” digitali?

Sì, in genere hanno almeno sentito parlare del problema e cercano di risolverlo. Anche perché le richieste delle WCAG migliorano la qualità generale dei documenti prodotti, e quindi vanno a vantaggio anche degli editori.

  1. Esiste uno standard da seguire per realizzare ebook accessibili? A quali regole ci si può riferire?

Le più diffuse tecnologie per realizzare libri elettronici sono epub, PDF, mobi (formato proprietario Amazon).
Il formato epub utilizza i linguaggi standard del W3C (fondamentalmente, HTML per la struttura e CSS per lo stile grafico). Il problema attuale è che questo standard ha seguito un approccio ibrido, richiedendo l’uso di HTML5 prima che questo fosse un reale standard (come si sa le versioni beta non garantiscono una completa compatibilità con quelle che saranno le specifiche definitive) e di conseguenza causando una grande confusione fra chi realizza i documenti e anche fra chi realizza gli e-reader, software e hardware in grado di leggere i documenti epub e mostrarceli a schermo (a grandi linee, una specie di browser per documenti elettronici in epub).
Siamo quindi in una situazione di passaggio, che probabilmente cambierà ulteriormente con l’evolvere della W3C Digital Publishing Activity, un progetto del W3C dedicato agli editori con lo scopo di realizzare una piattaforma di sviluppo standardizzata e condivisa. Sono orgoglioso di far parte di questo gruppo di lavoro del W3C, ma mi rammarico del fatto di essere l’unico italiano presente.
Un altro formato che tiene in grande considerazione l’accessibilità è PDF. Da molti anni Adobe sviluppa questo formato con l’accessibilità in mente, ed è possibile realizzare documenti conformi alle WCAG2. Il problema è che nessuno sembra saperlo, e il PDF continua ad essere considerato un formato “per la stampa” quando invece è uno dei migliori e più flessibili formati disponibili.

  1. Che ruolo hanno applicazioni, lettori ereader e tablet?

Hanno ovviamente un ruolo molto importante, perché sono gli strumenti che ci permettono di fruire dei libri elettronici. Il livello di accessibilità è molto variabile e cambia anche da sistema operativo a sistema operativo.

  1. Qualche suggerimento per chi vuole lavorare sull’accessibilità?

Sì. Non pensare all’accessibilità come a qualcosa dedicato ai disabili, accessibilità=universalità. Gli strumenti necessari sono quelli che utilizziamo tutti i giorni, non c’è da fare spese aggiuntive o straordinarie, sono disponibili sul web innumerevoli tutorial e filmati dedicati a tutte le problematiche, e le richieste delle WCAG 2 sono semplici da comprendere e applicare.
Sembra che si stia parlando di cose miracolose, i ciechi possono leggere e gli asini volare, ma in realtà si chiede per esempio di utilizzare gli stili di paragrafo di un word processor. Ancora oggi questa sembra essere una richiesta troppo tecnica… Contro questo non c’è molto che si possa fare.

Per concludere invito alla visione di questo filmato, che secondo me spiega molto bene l’essenza dell’accessibilità:

marzo, mese di e-book sulla scuola e le tecnologie

cover_libroCos’ha in comune il mio saggio breve con altri due ebook usciti quasi negli stessi giorni e che affrontano in qualche modo gli stessi temi? Uno èteste-e-colli_cover-e1426062008435
Teste e colli. L’ebook sulla #BuonaScuola, un’iniziativa di Il lavoro culturale e curato ottimamente da Marco Ambra: giustamente eFFe su Medium parla di due libri che “dovrebbero parlarsi” e sicuramente c’è più di un’affinità elettiva tra i due lavori;

cover_800_600L’altro è Google Drive e la didattica, un manuale operativo e al contempo un interessante esempio di ebook partecipato all’interno di un progetto più ampio, il Laboratorio di Tecnologie Audiovisive del professor Roberto Maragliano.

Se la cosa vi incuriosisce e ne volete sapere di più, ne scrivo approfonditamente nel blog del mio saggio.
Vi aspetto lì!

#labuonascuola non ha spazio, il (vero) digitale sì

cover_libroChi leggerà (e spero che siano più dei 25 lettori di manzoniana ironia) il mio breve saggio Il digitale e la scuola italiana non troverà menzione di tutto il progetto #labuonascuola. Non è stata né una svista, né una mancanza dovuta ai tempi; nel blog del libro spiego il perché e suggerisco spunti di riflessione concreti in base ad articoli e materiali interessanti che ho trovato vagando nel Web.

Il titolo è “Il digitale e la scuola italiana”

Di scuola si parla sempre molto, e l’attuale dibattito su #labuonascuola di Renzi non ha fatto altro che ravvivare i tizzoni di una brace che non si era in realtà mai estinta, ma che anzi, grazie anche a iniziative come il convengo sulla Flipped Classroom, arde continuamente sotto la griglia di un argomento che coinvolge non solo gli insegnanti, ma anche gli studenti, i genitori, i politici e gli editori.

Chi conosce questo blog sa che l’argomento mi sta a cuore, tanto che qualcuno mi ha fatto, tempo fa, la fatidica proposta: “Perché non ci scrivi un libro?” Ed è così che è nato Il digitale e la scuola italiana.
Premetto che non è mia intenzione aggiungere un ulteriore elemento di rumore al già esondante flusso di materiali, articoli, eventi, siti e video sul rapporto tra scuola e tecnologie e se ho accettato questa proposta è stato proprio per fare un po’ di ordine nel magma di informazioni in cui risulta sempre più difficile selezionare il segnale dal rumore e operare una sorta di gerarchizzazione delle informazioni in una struttura coerente.

Questo mio breve saggio (disponibile in ebook sin dal 2 marzo, in seguito uscirà anche la versione cartacea) è appunto il risultato di una lunga content curation che ho iniziato a fare anche con il mio blog su tutto ciò che riguarda scuola e tecnologie, didattica, editoria scolastica digitale, per poi raccogliere dati e materiali in modo credo coerente e spero utile a iniziare percorsi di approfondimento su alcuni dei temi portanti.

D’ora in poi il discorso su tutto ciò che riguarda il saggio proseguirà sul blog nel sito dell’editore, in cui ho già scritto una breve sinossi del libro e da dove è possibile scaricare l’anteprima del primo capitolo.
Il blog sarà anche una sorta di estensione online del libro stesso, (l’argomento richiederà spesso aggiornamenti di dati e informazioni), ma vorrei anche che diventasse luogo privilegiato di dialogo non solo con chi avrà letto il libro, ma anche con coloro che incontrerò nelle varie presentazioni che sto già iniziando a organizzare per l’Italia.

Spero di incontrarvi molto presto, in atomi o nel blog, per completare la mappatura di un argomento che forse non ha confini ben definiti, ma sicuramente molti protagonisti con un’esperienza da raccontare e un tassello da inserire.

L’Aula del XXI Secolo come Ambiente di Apprendimento

Insegnanti 2.0

La “Scuola” intesa come Spazio Fisico
Nel dibattito sulla riforma della scuola viene spesso sottovalutata l’importanza della scuola intesa come “Habitat“, spazio fisico e architettonico in cui ha luogo il processo di insegnamento e apprendimento. L’idea che gli ambienti in cui si svolge l’attività educativa siano come lo Spazio newtoniano “vuoti contenitori” caratterizzati da uniformità e universale omologazione, ha radici antiche nella scuola italiana. Negli altri paesi monitorati dall’OECD, esistono architetti specializzati nello School Design, che lavorano insieme ai rappresentanti di docenti e studenti per creare gli spazi educativi.
Ma è davvero irrilevante lo spazio nel quale si svolge la didattica? Può migliorare l’apprendimento scolastico in edifici cadenti e fuori norma? L’ambiente didattico deve essere solo uno scatolone vuoto? In quali spazi attrezzati gli insegnanti possono lavorare a scuola al di là delle ore di lezione curricolari? Si possono integrare le “Nuove Tecnologie” nelle “Architetture…

View original post 1.450 altre parole

Se ne parlerà in questo 2015: librerie, streaming per libri (e, come sempre, scuola digitale)

Sono almeno due mesi che vorrei trattare questi argomenti e l’ulteriore raccolta di elementi e nuovi annunci fatti recentemente non fanno altro che confermare quanto molti avevano già intuito: nel 2015 presumibilmente si parlerà molto di streaming, di librerie (e forse anche di biblioteche) e, naturalmente, si continuerà a parlare di digitale e scuola.

Streaming
Risale a pochi giorni fa l’annuncio di Scribd e Oyster della loro partnership con MacMillan che porterà migliaia di nuovi titoli disponibili in streaming nelle due piattaforme di lettura ad abbonamento (Amazon è partita con il suo Kindle Unlimited, ma senza i Big Five, cioè i primi cinque grandi editori mondiali). Ora, dice Andrew Weinstein,uno dei dirigenti di Scribd, sono quasi la metà dei Big Five a offrire i loro libri in streaming.
Se questo è sicuramente un colpaccio per le due startup (Scribd contiene oltre 500.000 titoli e gli utenti sono in crescita del 30% ogni mese; Oyster addirittura  ha oltre un milione di libri a poco meno di 10 dollari mensili), un articolo su Wired giustamente si domanda quale sia il reale vantaggio per gli editori, visto che lo streaming è un modello di business che mette in discussione moltissimi gangli sensibili dell’industria editoriale, dalla distribuzione all’annullamento in pratica del prezzo unitario per ogni opera e, non ultima, la questione dei diritti d’autore. La conclusione è semplice: data. Dati sul comportamento dei lettori, sul loro modo di leggere, sui tempi di lettura. Dati aggregabili, scomponibili e sicuramente utilissimi per future campagne marketing più mirate. Sono poche le piattaforme che mettono a disposizione dati di questo tipo, e Scribd e Oyster sono tra questi pochi. Un’esca troppo golosa anche per i pesci grossi, a quanto pare.
(Se vuoi approfondire l’argomento, oltre all’articolo linkato puoi leggere anche questo: Publishers Know You Didn’t Finish “The Goldfinch” — Here’s What That Means For The Future Of Books.)
E in Italia? Siamo ancora tutti (o quasi) in attesa di Lea, la piattaforma di Laterza, annunciata dalla primavera 2014, ma che ancora non ha emesso il suo primo vagito nel web. In compenso l’editoria periodica si organizza e crea Edicola italiana, una piattaforma per comprare, leggere e abbonarsi a quotidiani e riviste su tablet, pc e smartphone. Esperimento senza dubbio da seguire, per quanto sostanzialmente il problema, per i giornali e le  riviste, non mi sembra tanto di formato, quanto di contenuti.

Librerie

open4Può sembrare un paradosso, ma in un periodo di crisi congiunturale e ancor di più editoriale e culturale, in Italia aprono nuove librerie. Sono però librerie differenti da quelle che eravamo abituati a frequentare e soprattutto stanno rendendo una regola quella che prima era un’eccezione: l’offrire, accanto ai libri, qualcosa da mangiare e da bere, organizzare eventi, incontri, dare a disposizione gli spazi a chi li richiede e, naturalmente, una wifi aperta a tutti per navigare con ogni tipo di device.
Concentro l’attenzione su due casi in due contesti molto diversi: una metropoli del nord, Milano, e un paesino del centro, Penne.
In un mio recente viaggio di lavoro a Milano ho potuto personalmente sperimentare la bontà dell’esperimento di Open, una libreria che non a caso ha un “sottotitolo”: More than books. Girando per Open ho respirato un’atmosfera molto differente e piacevole, non solo per l’indubbia originalità dell’arredo (nel sito potete voi stessi fare una visita virtuale della libreria), ma soprattutto per il open3fatto che vedere una libreria piena di persone che studiavano, navigavano in rete, prendevano un caffè sfogliando le novità editoriali dava l’impressione di un’alchimia molto ben riuscita in cui convergevano internet cafè, libreria, biblioteca, bar letterario. Per non parlare degli spazi dati a disposizione per meeting, gruppi di studio, progetti creativi e qualsiasi altra idea si possa avere e non si sa dove poterla realizzare.

Simile, per molti aspetti, è Tibo, la libreria nata da poco a Penne, piccolo paese in provincia di Pescara e fondata da due giovani librai che, tengono a dirlo, a Roma avevano un posto fisso nelle librerie Arion, ma hanno deciso di fare qualcosa per il loro territorio: ne è scaturito un progetto ancora in progress, ma che vede già incontri letterari, concerti, un bar che serve una birra artigianale (sempre per valorizzare le realtà del territorio) e wifi per tutti.

La questione è: si può intersecare il mondo di queste librerie con la nuova dimensione editoriale che sta prendendo piede, la lettura in streaming? Io penso di sì, nel senso che lo streaming può avere una duplice funzione di utilizzo, soprattutto da parte dei recidivi del cartaceo: da una parte ci si può leggere testi per una semplice consultazione, e per studio, o libri che non teniamo a possedere fisicamente; dall’altra può costituire un ambiente dove sfogliare e selezionare quei libri che invece vale veramente la pena avere nel nostro scaffale analogico. Il fatto di poter fare tutto ciò direttamente in libreria può soltanto rendere più fluido, agevole e immediato l’intero processo, senza considerare che nel web possiamo scoprire più facilmente altri titoli affini che ignoravamo e che nella libreria fisica non è facile scovare.
C’è solo da aspettare per verificare se questa è solo la visione di un blogger febbricitante qual ora io sono o invece un auspicio realistico.

La scuola e il digitale
Infine non si può non parlare di scuola, che sembra ormai essere stata immessa in un processo di digitalizzazione che, partendo dal registro, sicuramente arriverà anche alla didattica. In un interessante articolo sulle 9 tendenze da tenere sotto osservazione per la scuola del 2015, mi soffermerei soprattutto su due di esse: gli spazi di apprendimento e la digitalizzazione dei materiali: i primi dovranno necessariamente cambiare e modificarsi in funzione di un nuovo tipo di didattica, una didattica che, veicolata (anche) dal digitale, mette però sostanzialmente alla ribalta metodi di oltre un secolo fa, come quello Montessori e la pedagogia “sociale” di John Dewey: in ambedue i casi lo studente è in primo piano, protagonista e attivamente coinvolto nel processo di apprendimento, che avviene anche e soprattutto  attraverso l’interazione con i suoi par in un contesto di condivisione, creazione di nuovi contenuti, verifiche continue su quanto fatto in base all’esperienza concreta. Non per niente già ai tempi Dewey parlava di “scuole nuove”, che forse la rivoluzione digitale potrà favorire.

Dall’altra parte, proprio il digitale deve fare un passo determinante: nell’articolo sopra menzionato infatti si riprende la distinzione di Gardner tra digitazion digitalization: con la prima si converte un contenuto da cartaceo a digitale, con la seconda si intende la creazione di un ambiente di apprendimento, multicanale, con una community e una riorganizzazione dei ruoli e delle competenze.

E questo, a mio modesto parere, dovrebbe in fondo riguardare anche il giornalismo, non solo la scuola.

Kindle Paperwhite, Kobo Aura, Tolino Shine, tra gli ereader a meno di cento euro o poco più

Il lettore digitale

Natale 2014: le feste natalizie degli ebook ereader? Natale 2014: sotto l’albero anche il Kobo Aura scende sotto i cento euro

A dicembre 2014, ancora prima dell’Immacolata, di Santa Lucia e del Santo Natale c’è un po’ di movimento in Italia nel mercato degli ebook reader. A meno di contromosse di Amazon [che infattti sono arrivate, andate in fondo al post, ndLuca], che lascia in vendita il suo Kindle Paperwhite a 129 euro, gli ereader di fascia media della concorrenza – Kobo Aura (Mondadori/laFeltrinelli) e Tolino Shine (IBS) – costano trenta euro in meno: 99 euro. In realtà è solo Kobo a giocare al ribasso, scontando appunto di trenta euro il suo Aura fino a fine mese, dato che il prezzo del “nuovo” Tolino Shine di IBS non cambia, è da listino inferiore ai cento euro.

Ho già dedicato un post ai lettori digitali di fascia alta – Kindle Voyage (non ancora disponibile in Italia), Kobo Aura…

View original post 446 altre parole

Come finisce il libro: 4 considerazioni

di Salvatore Nascarella (@nascpublish)

Ho letto tempo fa Come Finisce il libro. Contro la falsa democrazia dell’editoria digitale. Quelle che seguono sono alcune considerazioni nate dalla lettura.
Cominciamo col dire che a me i libri che pongono domande piacciono molto, perché preannunciano risposte. Il nostro 33_comefinisceillibroinizia proprio così. Ancor più importante, se parliamo di saggi, è che siano riportati dati e fonti in maniera precisa e facilmente riscontrabile. Infine, per cercare di descrivere quel che sta accadendo nel complesso mondo editoriale serve una buona capacità di sintesi e organizzazione del pensiero per tenere viva l’attenzione di un lettore. Bisogna dire che su questi fronti Gazoia ha colto nel segno.
Quella di Gazoia (su Twitter @Jumpinshark) è un’analisi dello stato delle cose che riguarda la galassia del libro, digitale e non: è un percorso attraverso i mutamenti che stanno condizionando e ristrutturando l’editoria, è un dialogo diretto con il lettore, senza manie di protagonismo, con l’obiettivo di condividere informazioni e far conoscere meglio il settore editoriale.
Ho ricavato dalla lettura del libro alcuni spunti di riflessione.

1. Siamo propensi ad accumulare e in qualche modo possedere contenuti. Lo facevamo con quelli “analogici” e replichiamo gli stessi comportamenti con il digitale. Spesso cerchiamo contenuti che siano, almeno per noi, sempre nuovi. Questo implica da una parte una certa bulimia che interessa chi scrive, chi legge, chi promuove o si deve promuovere e dall’altra un flusso costante di fenomeni letterari. Altro elemento che condiziona la propensione all’accumulo, maggiore per l’ebook rispetto al libro fisico, è legato all’intangibilità del contenuto: nel digitale la percezione di spazio occupato, di presenza “reale” dell’oggetto da leggere è assai ridotta. L’incorporeità fa perdere il controllo visivo che siamo abituati ad avere sul libro (sul comodino, sugli scaffali, ecc.). Inserito in un contenitore che ne maschera la fisicità, il contenuto si può sottrarre alla vista: questo aspetto è parte integrante della spinta all’acquisto e modifica in profondità il sistema editoriale e la sua economia.

2. Lo scopo dei grandi player (Amazon, Apple ecc.), così come degli editori e dei distributori editoriali “indipendenti”, è vendere, vendere, vendere. Per vendere di più si cerca di dare al lettore ciò che vuole e per raggiungere lo scopo serve fare volumi, in senso di quantità. Nulla di anormale. La filiera editoriale è fatta di aziende che lavorano per il profitto, pagando stipendi, professionalità, strutture ecc. Come giustamente fa notare Gazoia, c’è un “però”: l’esclusiva attenzione al prezzo più basso e le questioni connesse a quale compenso debba percepire un autore per il suo libro occultano un nodo centrale e una difficoltà reale dell’editoria, ossia la promozione della lettura e del libro. Niente più prestito all’amico, niente (per ora) copie di seconda mano: sì, è vero, le biblioteche possono prestare ebook, così come diverse piattaforme di distribuzione digitale, ma il rientro nel mercato di un ebook già acquistato o più semplicemente il passaggio di un libro di mano in mano tra amici, tra lettori, subisce un brusco stop. Esistono alternative, usate soprattutto nell’editoria professionale e universitaria (Open Access, Creative Commons, Copyleft), che permettono a un contenuto di essere diffuso e condiviso con diverse articolazioni dei diritti d’autore: non è detto che questi modelli non possano trovare spazio e imporsi anche in altri campi della pubblicazione digitale. Il tempo ci saprà dire.

3. L’ammiccamento è la strategia adottata per conquistare il lettore. Ci provano i grandi player, i distributori, gli editori, gli autori (anche quelli del selfpublishing). D’altra parte gli strumenti per darsi da fare ci sono: le classiche recensioni, gli eventi, i blog e i social network. E ovviamente c’è il marketing. Un ammiccamento simile abbraccia anche i potenziali scrittori che sono invitati a far da sé, con i pro e i contro del caso. Fa parte della “cultura partecipativa” cui la rete in qualche modo ci sta abituando e che apre le porte a chiunque sia alla ricerca del quarto d’ora di celebrità, giocando con la diffusione virale e – perché no – fidelizzata delle storie. Il risultato può non rispondere alle aspettative degli autori e dei lettori, ma in ogni caso risponderà alle logiche di vendita. A dirla tutta, l’autopubblicazione digitale non è nata con gli ebook: i blog sono i padri dell’autopubblicazione. Avete presente quei diari o le raccolte di poesie e microstorie su web che tanto andavano di moda anni fa? Ecco, quella era una forma selfpublishing, libera, accessibile e gratuita. Ma quindi cosa sta cambiando? Ovviamente i blog continuano a esistere e, anzi, la tendenza è personalizzare sempre più la propria presenza in rete. La differenza maggiore è che esiste un modello di business legato ai contenuti: quelle raccolte di poesie e le microstorie digitali si possono vendere. A mio parere, la differenza maggiore sta però nel tentativo di far percepire come personale e intima la relazione lettore-venditore-autore. Per intenderci, si sposa bene con gli slogan “solo per te” e “anche tu puoi”. Qui sta appunto l’ammiccamento conquistatore.

4. Dobbiamo considerare un fattore di prospettiva dell’autopubblicazione: anche i contenuti digitali autopubblicati sono e saranno specchio del nostro tempo. Poco importa esprimere oggi un giudizio positivo o negativo sulla questione, perché di fatto anche il selfpublishing sarà un elemento attraverso cui i posteri potranno leggere e interpretare la nostra società, esattamente come noi facciamo con la lettura degli autori del passato. Ciò varrà sia per gli autori “nobili” sia per quelli non filtrati dagli editori, al di là del prezzo di copertina di un ebook o un libro, al di là del supporto elettronico su cui leggeremo. E non è che ciò sia meglio o peggio: semplicemente è. Siamo dentro questo tempo, immersi in questa trasformazione, e ci è difficile, se non impossibile, produrre un giudizio oggettivo. Possiamo solo analizzare quanto sta avvenendo per azzardarci a scegliere con maggiore consapevolezza.

Se l’intenzione del testo era rendere più consapevoli i lettori (e gli scrittori) di quanto avviene nella filiera editoriale alla luce dei cambiamenti che stanno caratterizzando il settore, il lodevole obiettivo è stato raggiunto.
Forse, ma dico forse, per chi lavora nell’industria del libro i contenuti saranno in buona parte già assai noti. Ciò non toglie che faccia bene alla sistema culturale e politico – in senso lato – del nostro Paese far conoscere al più vasto pubblico possibile quel che accade “dietro” un libro, digitale o meno, e più in generale in quale contesto si stia muovendo la realtà editoriale.
Ad ogni modo, possiamo stare tranquilli: la morte del libro non è ancora giunta e penso che tardi ad arrivare.

Tolino entra nel presepe degli ereader di Natale: è lui l’anti Kindle?

Sono tanti gli argomenti della settimana di cui potrei parlare: prima di tutto la fine della guerra tra Amazon e Hachette, poi la questione dellIVA al 4% sugli ebook (attualmente è al 22%) e, sempre a proposito di Amazon, l’inizio della collaborazione tra il colosso di Seattle e la Giunti. Ma si tratta di argomenti di cui potete trovare già molti articoli più completi e interessanti di quelli che potrei scrivere io, e quindi vi rimando volentieri alla loro lettura: sulla diatriba Hachette-Amazon non credo possiate un articolo migliore del post di Roberto Maragliano intitolato Guerra di posizione per il digitale in cui si fa riferimento a un’ottima sintesi in due parti di Andrea Patassini. Da parte mia, sulla guerriglia tra i due colossi non ho altro da dire e del resto mi ero già espresso in un post in cui enucleavo i 4 punti secondo me più importanti della questione (La questione Amazon-Hachette in 4 punti). Vorrei però evidenziare una riflessione di Maragliano a proposito di libri di carta e digitali: “Parlare di ‘libro di carta’ e di ‘libro digitale’ non permette infatti di cogliere tutto ciò che sta attorno e dà senso a realtà che sono irriducibili l’una all’altra, dunque restano due, e ben distinte tra di loro.” Il discorso di Maragliano è sul piano più della filiera produttiva e distributiva, ma ci traghetta in qualche modo verso la seconda vexata quaestio del momento, l’IVA al 4% sugli ebook, auspicata da molti, voluta veramente forse da pochi.  Tra i fautori dell’equiparazione fiscale del libro digitale e quello cartaceo stanno coloro che ritengono che tra i due contenuti non ci sia una differenza sostanziale, mentre ora l’IVA al 22% mette in modo blasfemo gli ebook sullo stesso piano di altri prodotti elettronici, tra cui i videogiochi.  E che cos’ha a che fare un videogame con un libro? Ce lo spiega Fabrizio Venerandi di Quintadicopertina nel suo pezzo Quando il videogioco è letteratura?, mentre un’ottima riflessione complessiva sull’argomento la fa il solito Giuseppe Granieri nelle  sue 5 considerazioni sull’IVA e sugli ebook Se siete comunque curiosi, le ultime notizie danno un Franceschini combattivo e determinato a essere il paladino numero uno della campagna #unlibroèunlibro, sfidando addirittura le decisioni della Commissione Europea,come già da tempo ha fatto la Francia. In mezzo a tutto questo fragore Giunti inaugura una collaborazione con Amazon e con Giunti al Punto propone una sorta di sinergia ebook-libro cartaceo e libreria online/libreria fisica. Un progetto che può suscitare perplessità, ma che vale comunque la pena di seguire anche con curiosità, così come quello di Messaggerie che vuole coinvolgere i librai indipendenti nell’operazione Tolino e che ci porta al terzo e vero grande argomento della settimana.

tolino

Tolino Shine

Infatti la vera notizia viene dalla Germania, ed è il sorpasso nelle vendite dell’ereader Tolino sul Kindle: ne ha parlato in modo approfondito Il libraio (a proposito, anche questa è una novità da tenere d’occhio), che menziona anche l’accordo che Ibs.it ha fatto con Deutsche Telekom per la vendita  dell’ereader qui in Italia: per ora i modelli sono due, Tolino shine e Tolino vision 2. Tutto ciò fa presupporre che Tolino soppianterà il fantastico Leggo della stessa Ibs, ma credo che non se ne accorgeranno in molti.  Piuttosto, chi è curioso di saperne qualcosa di più legga questo articolo in cui si mettono a confronto il Kindle Voyager e il Tolino vision 2 e in cui si conclude che il Kindle è migliore, ma costa un po’ di più.  Tolino non esce molto bene nemmeno da questo slalom parallelo a tre, dove si confronta la luminosità del Kobo Aura, del Kindle Paperwhite e, appunto, di Tolino, che risulta avere la luce peggio distribuita sullo schermo e meno facile da regolare. La recensione è in inglese, ma le immagini, come si suol dire, valgono più di mille parole.

Comunque i dati che vengono dalla Germania fanno già parlare di Tolino come del famigerato “anti Kindle” che molti aspettavano. Sarà veramente così? Di sicuro, per questo Natale avremo un’opzione in più da considerare, perché comunque Tolino sembra un ottimo ereader e ha le potenzialità giuste per competere con i vari modelli del Kindle. P.S: A proposito, qualcuno di voi ha già in mano il lettore made in Germany? Se mi manderete le vostre impressioni e valutazioni sarò lietissimo di inserirle magari in un post futuro. 

ebook in biblioteca, come si fa a prenderli in prestito con MLOL

Il lettore digitale

La schermata principale del CSBNO MLOL La schermata principale del CSBNO MLOL

Prendere in prestito un ebook è una realtà di fatto, tuttavia dato che è probabile che non sia così conosciuto il come e il dove mi permetto di darvi qualche dritta. Anche se costano meno rispetto ai libri di carta non vorrete mica comprarli sempre no? A volte basta “andare” in biblioteca – sebbene appunto non ci si debba più recare di persona in un edificio ma accedere al suo catalogo on-line. Nei giorni scorsi ho attivato un account presso il mio sistema bibliotecario di riferimento, il CSBNO (Consorzio Sistema Bilbiotecario Nord Ovest del Milanese) che ha permesso ai miei genitori di non finire in bancarotta quand’ero piccino prima e adolescente poi.

In particolare, il CSBNO ha stipulato un accordo con MLOL (Media Library On Line) che altro non è che un “servizio di biblioteca digitale per accedere via Internet a libri…

View original post 561 altre parole

Il libro visto da Francoforte

Di ritorno da due giorni alla Buchmesse di Francoforte per ragioni di lavoro, riporto qui alcune riflessioni e appunti che ho raccolto prima, durante e dopo il viaggio in quello che senza dubbio è il tempio del mondo editoriale.

1. Il libro cartaceo è vivo e vegeto
Non mi è sembrato affatto che il libro sia un oggetto in via di estinzione e devo dire che leggere questo articolo sull’Economist non ha fatto che rafforzare e confermare questa mia impressione. Articolo beconomistreve, quasi una didascalia estesa di un’immagine che mostra le vendite di libri cartacei e digitali in U.S..A e in alcuni paesi europei (tra cui l’Italia) dal 2007 al 2018, quindi con una proiezione futura che prevede, solo per Stati Uniti e Gran Bretagna, un sorpasso del digitale sul cartaceo – senza però includere il settore professionale e scolastica, elemento di non poco conto.

Resta comunque il fatto che contrapporre i due supporti rimane una forzatura, come anche sottolinea molto bene Edward Nawotka in uno dei suoi editoriali francofortesi su Publishing Perspectives:

“Nella storia recente dell’editoria sembra essere dilagato un conflitto fomentato soprattutto dalla digitalizzazione: Amazon contro tutti, cartaceo contro digitale, editori contro self-publishing, libri contro gli altri media. Forse è stata la nostra immaturità digitale a condurci a una visione dove si vince o si perde soltanto?”

2. Alla ricerca di un nuovo modello di business: lo streaming è la via giusta?
Digitale o meno, è chiara ed evidente l’esigenza, per gli editori, di trovare un nuovo modello sostenibile, vuoi per affrontare la IMG_20141010_172249crisi strutturale che non è solo di settore, vuoi per ricavare nuova linfa vitale in un momento quanto mai confuso, pieno di rischi come però anche di possibilità. A questo proposito trovo notevoli le parole di Brian Murray, CEO di HarperCollins, il quale proprio a Francoforte ha rivelato che delle tre vie tentate dal suo marchio (il bundling, il print on demand e lo streaming), quella che con sua stessa sorpresa si è rivelata ad oggi vincente è stata proprio la partnership con Scribd.

“Questo modello – ha detto Murray – è adattissimo alla cosiddetta “coda lunga” e valorizza molto la backlist e il catalogo di un editore”.

Ma le parole di Murray che mi hanno colpito sono soprattutto queste: “Noi andiamo sempre avanti e vogliamo provare cose nuove: se qualcosa ha successo o fallisce, comunque impariamo nel corso del processo. Vogliamo essere i primi a imparare: se qualcosa funziona, lo rafforziamo e lo miglioriamo.”

Come anche sottolinea Nawotka nel suo editoriale, non è scontato sentire un manager editoriale parlare così, ma è così che bisognerebbe sempre ragionare, soprattutto in un momento come questo.

DSC_0016

La “classe del futuro” di we.learn.it

3. Educational: fermi tutti, prima la metodologia.
Parecchia attenzione anche all’educational (padiglione 4.2), ma la priorità quest’anno viene data non tanto alle ultime trovate tecnologiche (che del resto non ci sono), quanto piuttosto alla consapevolezza del fatto che l’uso delle tecnologie in classe resterà sempre limitato e poco incisivo se nel mondo degli atomi non si realizzano le condizioni adeguate per valorizzare le potenzialità offerte dai bit.
Non a caso lo spazio maggiore è stato dato al progetto we.learn.it dove si può sperimentare direttamente e concretamente la classe del futuro (niente file di banchi, spazi modulari, tanta sperimentazione e lavoro collaborativo); e non a caso uno degli speech più seguiti è stato quello dell’educatore finlandese Pasi Sahlberg, che ci ha parlato in maniera godibilissima e con grande competenza del modello educativo finlandese e di come esso sia perfettamente esportabile e imitabile, a patto di trasformare un sistema scolastico da competitivo a collaborativo, da standardizzato a personalizzato, da valutativo a responsabile, da elitario a equo. In tutto ciò l’innovazione è importante solo se essa è veramente integrata nel sistema educativo.

Per chi vuole approfondire i vari punti, ecco qualche link utile:
– sulla questione cartaceo-digitale e in generale sui nuovi modi di intendere scrittura e lettura digitale, c’è un’interessante dibattito scaturito da un post su facebook di Gino Roncaglia, il quale prende a sua volta spunto da questo articolo su Electric Lit.

– Del bundling mi sono occupato già in passato su questo blog, rinviando anche a post molto puntuali e specifici, vedi qui. Anche sullo streaming ho scritto spesso, l’ultima volta parlando del servizio Amazon Kindle Unlimited; segnalo per l’occasione un post recentemente comparso su pianetaebook che pone la questione su una prospettiva secondo me corretta e lucida.

– Infine, su scuola digitale e necessità di innovazione nel sistema scolastico stesso, rimando alla relativa sezione in questo blog. Non per egocentrismo, ma perché – e chi mi conosco lo sa – i miei post partono sempre da spunti trovati nel web che riporto e approfondisco.

Due o tre cose a proposito di “La vista da qui”

manteIeri ho finito La vista da qui, il libro di Massimo Mantellini  e ne ho scritto qualcosa su Medium. Se interessa, il pezzo è qui. Non è una vera e propria recensione, bensì alcune considerazioni incentrate su due argomenti che chi segue il mio blog sa che mi stanno particolarmente a cuore: didattica e tecnologie, lettura digitale. Siete avvertiti, quindi: se non interessa l’articolo, evitatelo senza problemi, non ci rimango male.

Kindle o Kobo? La sfida ora va anche… sott’acqua

Il recente lancio del Kobo Aura H2O, un ereader resistente all’acqua, ha riportato (un po’ in sordina, bisogna dire) in auge la buona vecchia dicotomia Kindle (Paperwhite) vs. Kobo.

Ne ha parlato tra i primi Pianeta Ebook, con un post in cui non si nasconde una certa perplessità – che sinceramente condivido – per l’operazione di Kobo e del suo ereader impermeabile, versione peraltro già esistente per il Kindle, senza che molti si siano strappati i capelli (inoltre, la versione waterproof del Kindle Paperwhite costa più o meno come il Kobo Aura H2O).

Molto interessante ed eloquente un video (tratto da Goodereader.com) in cui si mettono letteralmente in parallelo i due ereader e che ripropongo volentieri, sintetizzando per comodità (è in inglese) le caratteristiche più notevoli messe in luce.

kindle-kobo1 – Prima di tutto, le dimensioni: il reader Kobo è un 6,8″, il Kindle un 6″: sicuramente un valore aggiunto, da parte del primo, soprattutto per chi bada alle dimensioni dello schermo (io non sono tra costoro).

2 -La prima schermata del Kobo è più dinamica, permette l’accesso a più menu in maniera intuitiva e accattivante. Quella del Kindle Paperwhite è concentrata solo sulla libreria e lascia alla barra superiore il compito di indirizzare l’utente verso lo store e altri menu.

3 – Anche nei tools di lettura (ingrandimento caratteri, cambio font) il Kobo sembra più versatile e più ricco di opzioni e strumenti. Però attenzione: a questo punto il video rivela una funzione del Kindle davvero insuperabile e insuperata (almeno finora): selezionando una parte del testo (anche un’intera schermata), la si può tradurre in qualsiasi lingua, dal finnico al cinese.

4 – Lettura PDF: qui il Kobo inizia a perdere colpi: più lento e macchinoso del Kindle, che invece è più sensibile al touch e fa lo zoom sul testo al semplice movimento delle dita. Il Kobo da parte sua, pur con un refresh più faticoso, permette di girare la pagina del PDF direttamente dallo zoom. Da notare che il Kindle mantiene la funzione di traduzione (e le altre consuete: sottolineatura, appunti, ecc.) anche con i PDF, mentre invece il Kobo non permette di fare molto durante la lettura di testi in questo formato.

5. Bookstore: quello del Kindle ammonta a 5 milioni di libri, il Kobo a 4, quindi la differenza non è così determinante. Entrando però nelle schede libro, Amazon fornisce molte più informazioni, dalla lunghezza del libro (cartaceo, per dare un’idea delle pagine), alle recensioni degli utenti.

I due recensori del video concludono la loro analisi con una unanime preferenza verso il Kindle Whitepaper il quale, nonostante le dimensioni minori dello schermo, si rivela imbattibile nella reading experience generale.

Concludo con alcune osservazioni importanti che ho raccolto su twitter: un altro vantaggio del Kindle è che permette ll’uso degli stessi strumenti sia per i libri acquistati nello store Amazon, sia per quelli acquistati in altri store, nonché per ebook in .epub convertiti in seguito in .mobi, il formato di Amazon (se non sapete di cosa sto parlando, rimando a questo vecchio ma sempre utile post sul Kindle). Il Kobo, invece, a quanto dice chi lo possiede, visualizza correttamente e permette di interagire solo con gli ebook acquistati nel suo store.

Non ho motivo di dubitare di colui che mi ha dato questa informazione, ma il primo pensiero è stato che in questo modo il Kobo perde gran parte del vantaggio che ha in quanto ereader in grado di leggere l’epub, il formato standard degli ebook. Infatti, se l’editore distribuisce i suoi ebook con un semplice social DRM, ne permette l’acquisto ovunque, e personalmente posso anche fare a meno di rivolgermi – magari per ragioni etiche – allo store Amazon (certo più comodo perché direttamente accessibile dal Kindle) e, con un piccolo procedimento ulteriore, far lavorare Calibre e ottenere un ebook pronto per il mio Kindle.

 

 

Wikipedia in classe? Una questione di responsabilità

L’utilizzo di Wikipedia nelle ricerche scolastiche è diventato uno degli argomenti più dibattuti tra educatori e insegnanti. Un interessante articolo su Edudemic mette giustamente in guarda prima di tutto dal manicheismo sempre in agguato e invita a valutare sobriamente i pro e i contro di Wikipedia per trarne poi delle conseguenze equilibrate.
L’articolo non è lungo e invito a leggerlo integralmente, qui ne faccio una sintetica traduzione, accompagnata da alcune riflessioni personali.

I pro
Curatori specifici: Wikipedia assegna la supervisione delle pagine a dei curatori wikipedia-logo-en-bigspecifici, in modo che gli errori siano corretti rapidamente.
I curatori sono inoltre più di uno, quindi i controlli sono fatti da più occhi e ogni eventuale dubbio viene affrontato da prospettive differenti.

Aggiornamenti frequenti: chi usa Wikipedia lo sa bene e spesso si ironizza sul fatto che la morte di qualche personaggio noto è annunciata prima da WIkipedia che dalle agenzie stampa: questo perché ogni voce è sottoposta a controlli e revisioni costanti.

Trasparenza: si tratta sempre di una questione delicata per chi lavora con minori e in un contesto scolastico. In questo caso, tutto è pubblico, anche i messaggi sulla pagina dell’utente; così i ragazzi non avranno contatti nascosti con nessuno.

I contro
Informazioni faziose: le informazioni provengono da volontari, non giornalisti professionisti, quindi il rischio di faziosità è alto. Questo, però, a mio modesto parere, non è ormai più una caratteristica peculiare di Wikipedia,considerata la faziosità manifesta di non poche testate giornalistiche ufficiali e di blog anche molto seguiti; per non parlare della sempre maggiore tendenza di diffondere e di credere alle cosiddette “bufale”, che rendono la capacità di filtrare e valutare le informazioni ancora più indispensabile.

Mancanza di diversità tra i curatori:  a quanto sembra sia emerso da una ricerca, circa il 90% dei curatori volontari che si occupano di Wikipedia è composto da maschi. Ciò aggiunge un ulteriore elemento alla sopra menzionata questione della faziosità, senza poi considerare eventuali (e non note) caratteristiche, come l’etnia o l’estrazione socioeconomica.

Interazioni con sconosciuti: sebbene, come detto sopra, le interazioni siano sempre pubbliche, ciò non toglie che gli studenti entrano comunque in contatto con degli estranei, per cui è bene raccomandare la massima cautela nel fornire informazioni private.

Utilizzo in classe
Punto di partenza per una ricerca: Wikipedia è quasi sempre la prima voce che compare in una qualsiasi ricerca su un qualsiasi argomento. Perché non farne effettivamente il punto di partenza per lo studente? Se è vero che Wikipedia non può essere l’unica fonte utilizzabile, può essere comunque quella da cui partire, anche perché fornisce all’utente una buona organizzazione interna dei contenuti, nonché una lista di link alle fonti consultate.

Analizzare le citazioni: alcuni articoli di Wikipedia hanno citazioni ben fatte, che rimandano a contenuti sul web o a libri: se si trova una pagina senza citazioni, si può creare un account di classe per aggiungere citazioni come curatori di Wikipedia.

Fare lezioni su come validare il materiale: chiedere agli studenti di selezionare alcune informazioni tratte da Wikipedia per verificarle e rafforzarle con ulteriori fonti, sia cartacee che digitali.

Inviduare i passaggi faziosi: fare cercare agli studenti le informazioni o i dati che indicano una qualche forzatura da parte del curatore, sia essa di natura politica, o di tipo sessista, o razzista.

Come si nota, le attività suggerite rappresentano delle buone pratiche per qualsiasi tipo di ricerca,in quanto la capacità di filtrare, di verificare e di valutare le fonti è una delle competenze più importanti in un’epoca in cui la tecnologia ha capovolto il rapporto tra scarsità e abbondanza riguardo alle informazioni: se infatti fino a pochi lustri fa la scuola operava ancora in un contesto esterno dove le informazioni erano, se non scarse, comunque più erogate (e controllate, elaborate, manipolate) dai media di massa, la situazione in cui si trovano ora gli studenti è di un flusso informativo continuo, simultaneo, ubiquo, dove ogni utente diventa potenziale fonte a cui attingere nuovi dati, nuovi tasselli che si può scegliere o meno di utilizzare nella propria personale ricerca e costruzione della conoscenza.
Questo è un tema che personalmente mi sta molto a cuore, come sa chi ha avuto l’occasione di leggere il breve saggio Il digitale e la scuola italiana, in cui tocco la questione di Wikipedia in modo solo laterale, approfittando quindi di questo spazio dedicato agli approfondimenti per metterla più in primo piano.
Chi invece ha trattato molto bene il tema è stato Roberto Casati, che non a caso ha intitolato uno dei capitoli del suo noto saggio Contro il colonialismo digitale “Perché non correggete anche voi Wikipedia?”, proponendo un’intelligente attività che può essere benissimo replicata in classe.
Per dirla con le sue parole: “Uno degli effetti secondari di un’enciclopedia libera è di aver creato implicitamente una grande scuola di curatori editoriali. Il che, mi sia permesso di dirlo, è anche un contributo alla democrazia. Ma è essenziale, perché questa funzione sia svolta intelligentemente, che resti una traccia delle correzioni (la “discussione”* di Wikipedia). Correggere è un’arte, ma soprattutto una responsabilità”.

Da sempre conoscenza e responsabilità sono (o dovrebbero essere) un binomio indissolubile: la prima non dà frutto senza la seconda, la seconda non matura se non ha il supporto della prima. La tecnologia ha reso questo connubio forse più fragile, ma ci offre anche gli strumenti per farlo più indissolubile. Sta anche e soprattutto al sistema educativo fornire le chiavi interpretative per operare questa saldatura.

Un altro libro in cui si parla di utilizzo didattico di Wikipedia è It’s complicated. La vita sociale degli adolescenti sul web di Danah Boyd, che suggerisce di fare tesoro proprio della “stratigrafia” delle correzioni dei curatori di Wikipedia per analizzarla con gli studenti, in modo da capire quanto sia complesso il processo di analisi, valutazione e modifica di informazioni.